sabato 19 agosto 2023
La nuova edizione della “Consolazione della filosofia” per la Fondazione Valla restituisce integralmente le qualità di un libro fondamentale per secoli e poi divenuto il più celebre tra i non letti
Boezio in cattedra nel capolettera dell'incipit del “De consolatione philosophiae” in un manoscritto del 1385

Boezio in cattedra nel capolettera dell'incipit del “De consolatione philosophiae” in un manoscritto del 1385 - WikiCommons

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La Consolazione della filosofia di Boezio è uno di quei capolavori famosi, che quasi nessuno conosce: la sua risonanza sembra dovuta più alla sorte tragica dell’autore, fatto giustiziare innocente da re Teodorico, che al suo immenso valore. Eppure, se Dante si converte dalla lirica d’amore alla poesia filosofica, ricorda Piero Boitani, lo si deve alla lettura della Consolazione di Boezio, e del De amicitia di Cicerone: così nasce il Convivio, che resterà incompleto per la nuova conversione che riguarda la salvezza, etica e teologica, e frutterà la Commedia che nel Cinquecento sarà dichiarata Divina.

Perfino Peter Dronke, la cui ultima opera per la Valla (Boezio, Consolazione della filosofia, pagine 384, euro 50,00), dopo l’impresa di Giovanni Scoto, è questa cura che nessun altro avrebbe potuto compiere con pari eccellenza, confessa la sua ritrosia giovanile, per via di un apprezzamento di Edward Gibbon, che lo affiancava a Platone e a Cicerone, e gli pareva aulico. E invece, è vero che il modo in cui Boezio racconta la propria dolorosa esperienza sta alla pari di quella in cui Platone racconta gli ultimi giorni di Socrate, « per il livello altissimo di intelligenza immaginativa». E come e dove Boezio sia estremamente inventivo, e gli si debba una trasmissione fondamentale di opere greche e precise elaborazioni logico-concettuali, base della logica scolastica fino ai nostri giorni – concetti che nascono da analisi logiche rigorose, quale per esempio quello di Trinità – Dronke lo rivela a ogni passo di questa edizione davvero mirabile. È un gioiello. Se ne trae il “piacere” di ciò che è più vicino all’idea di perfezione, intessuto com’è da Dronke, insieme alle traduzioni di Piero Boitani per i versi latini, e di Michela Pereira per la prosa e per l’inglese di Dronke.

Severino Boezio nacque verso il 480 nella famiglia ricca e antica degli Anicii. Alla morte del padre fu adottato da Simmaco, che gli procurò la migliore educazione nelle scuole neoplatoniche di Atene e di Alessandria. Ne sposò la figlia Rusticiana, dalla quale ebbe Simmaco e Flavio Boezio, che divennero consoli. Erano cristiani da tempo. Boezio fu un grande studioso, oltre che poeta. Competente in musica, astronomia, geometria, aritmetica (il Quadrivium, termine di suo conio), autore di trattati di logica e teologia, tradusse Platone e l’Organon di Aristotele, commentandone le Categorie e Sull’interpretazione e l’Isagoge di Porfirio. Non poté portare a termine il grandioso progetto di tradurli per intero, mostrando, come desiderava, quanto Platone e Aristotele concordassero insieme nelle cose fondamentali; ma ugualmente realizzò «un risultato senza pari».

Nel 522, poco dopo essere diventato console, Boezio fu chiamato alla massima carica di magister officiorum da Teodorico, del quale era da tempo referente culturale. L’ostrogoto e ariano Teodorico era stato educato a Costantinopoli. L’imperatore Zenone, dopo avergli chiesto di sconfiggere l’erulo Odoacre, l’aveva insediato a Ravenna. Subito, nel 523, accadde l’imprevedibile. Il consigliere Cipriano accusò il senatore Albino di avere chiesto aiuto all’imperatore Giustino per eliminare Teodorico. Sicuro dell’onestà dell’intero Senato, Boezio esclamò, davanti al re: «L’insinuazione di Cipriano è falsa; ma se Albino ha fatto questo, allora io e tutto il Senato l’abbiamo fatto tutti insieme. È falso, mio re e signore!» Cipriano convocò falsi testimoni per deporre contro Albino e Boezio. Boezio fu imprigionato a Pavia, condannato a morte sensta za nemmeno essere interrogato. Il Senato, della cui fede mai avrebbe dubitato, lo tradì. In Senato, infatti, il prefetto di Pavia Eusebio pronunciò la condanna. Boezio fu ucciso sotto tortura nel 524, riporta il cronista Anonimo Valesiano, con una corda attorcigliata alla te fino a fargli schizzare gli occhi, e finito a bastonate. Lo difese solo Simmaco, giustiziato un anno dopo.

Comprendiamo allora la forza estrema, degna davvero di Socrate, di scrivere questa Consolatio in carcere. Essa ebbe un’influenza ampia, varia, duratura, anche se nessun manoscritto precedente al IX secolo sopravvisse. Rifiorì dopo i secoli bui dal tardo VI a metà IX. Fu letta con i 31 carmina musicati. Nella scuola palatina di Carlo Magno fu assunta da Alcuino, che trasformò la figura drammatica di Philosophia nella Sapientia, l’Hagia Sophia dei Proverbi, della Sapienza e del Siracide. Fu commentata da Remigio d’Auxerre e Guglielmo di Conches, tradotta da re Alfredo, IX secolo, e da Chaucer nel XIV. Germinò in poesia e si trasformò: nel poema occitanico del Boecis con fantastiche allegorizzazioni della domna che tiene nella mano un libro in fiamme, ispirando la Natura in pianto di Alano di Lilla, e la Donna gentile di Dante, Filosofia, che in Amor che ne la mente mi ragiona «piove fiammelle di foco,/ animate d’un spirito gentile». Mentre Boezio sfoga in versi la disperazione per la Fortuna che gli ha volto le spalle, compare dall’alto una donna dagli occhi ardenti, come senza tempo, che pare penetrare il cielo. La veste a brandelli e offuscata, che lei ha intessuto con le sue mani, è quella che Proclo dice di Atena, cioè la sua sapienza immutabile, mentre lei stessa è la sapienza di Dio. In alto e in basso di una scala una P e una T vi indicano Filosofia Pratica e Teoretica. Nella destra regge piccoli libri, nella sinistra uno scettro. Gli occhi in fiamme, caccia le Muse che tratta da meretrucole da sceneggiata: Sirene di dolcezza esiziale. Le sue, sono le Muse che lo cureranno. Autorevole, imperiosa, ora si siede vicino a lui, canta il lamento condiviso nel baratro, gli promette il nutrimento che dissolverà le tenebre. Si schiariscono gli occhi di Boezio, inizia il vero dialogo, questa «satira menippea», o prosimetro che affida alla poesia il respiro, la più potente dichiarazione lirica e intellettuale delle energie dell’anima alla ricerca della verità. Per gradi impara ad abbandonare ciò che è vano, per l’eudaimonia, la beatitudine del vero bene, l’eternità della presenza di Dio che è vita intera e piena, conoscenza al presente.

Nell’ordine della provvidenza tessuta dal fato, nel sistema stellare del Timeo, che Boezio conosce tramite Calcidio, Filosofia lo richiama alla vera patria, in quel reditus memore delle origini edeniche. In lei, che ricorda Sophia della Bibbia, la dea guida di Parmenide, Rhode ed Ekklesia del Pastore di Erma, si anticipano le personificazioni care al Medioevo. La teatrale Fortuna dai mitici ascendenti, ora figlia di Providentia, è pronta per diventare il grande personaggio dei poemi cortesi, di Boiardo, di Ariosto. Nelle preghiere O stelliferi conditor orbis, O qui perpetua mundum ratione gubernas, che ispira la preghiera di san Bernardo alla Vergine, Boezio riprende antichi inni e Lucrezio, e vi getta i semi di Hölderlin. Veloce ho le ali / per salire in cima al cielo è anche Rûmi. Infine Boezio trasporta l’intrepido respiro in punto di morte nel canto di Orfeo, colui che muore per amore, e vede come lui la fonte lucente del bene.

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