sabato 17 settembre 2016
​Domani la giornata europea della cultura ebraica. Mostre, eventi e dibattiti: centinaia di iniziative in tutta Italia.
Ritrovata la «Bibbia» del dialogo
Giornata della cultura ebraica Ecco il ghetto di Venezia. Oggi
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Il 29 marzo del 1516 il Senato della Repubblica Veneta decretò di mandare tutti i giudei presenti in città ad abitare «uniti» a Cannareggio in «una corte di case». Nasceva così, 500 anni fa, il primo ghetto al mondo destinato agli ebrei. La storia è poi proseguita con altri recinti, altri muri e con la barbarie che ha segnato drammaticamente il popolo ebraico. Ma cosa rimane di quel luogo originario? Cosa ci racconta? Chi abita oggi il ghetto di Venezia? Con la lucidità e la sensibilità che lo contraddistinguono, il fotografo Ferdinando Scianna propone un percorso in 50 scatti attraverso una comunità viva (la mostra Il Ghetto di Venezia 500 anni dopo alla Casa dei Tre Oci del capoluogo veneto, fino all’8 gennaio del 2017, catalogo Marsilio). Persone e luoghi che fanno dialogare la normalità delle scene odierne con il senso della storia che in quelle calli, quei campi, quei canali dai tratti fortemente simbolici si è succeduta. S’incontrano Emilio Piasentini, pregiato intagliatore, il restauratore di mobili Giancarlo Rossi, il panettiere kosher Davide Volpe, la novantaduenne Virginia Gattegno, ospite della Casa israelitica di riposo e un vecchio fedele davanti alla sinagoga. Volti del quotidiano, insieme a figure imprescindibili del luogo: come Živa Kraus, grande dama della cultura internazionale, che con la sua galleria fotografica Ikon si è conquistata prestigio mondiale; la direttrice del museo ebraico, Marcella Ansaldi; e, certamente, il rabbino Rav Scialom Bahbout che si prepara alla preghiera.

Il sapore visivo della tradizione nell’immagine di un uomo che attraversa il Ghetto © Ferdinando Scianna / Magnum PhotosSi può rivivere la cerimonia di Shabbat della comunità Chabad-Lubavitch, trovarsi davanti al “Banco rosso” dei pegni, osservare un gruppo di ragazzi che gioca attorno a uno dei tre pozzi del Ghetto Nuovo, imbattersi in un gruppo di turisti che dialoga con gli abitanti con la tradizionale kippah, alzare lo sguardo e scorgere una vecchia signora affacciata a una finestra o fissare per terra antiche pietre d’inciampo, le mattonelle in ottone poste davanti all’ultima residenza nota dei deportati, dove sono incisi i nomi e i destini delle persone rastrellate dai nazisti e assassinate nei lager. Istantanee dal ghetto di Venezia. Oggi. Ma capaci di raccontare una storia lunga. Compito non facile, anche per un grande fotografo. In effetti il timore di fallire assale Scianna appena dopo aver accettato la proposta della Fondazione Venezia, promotrice della mostra insieme a Civita Tre Venezie.

Insegnamento del rabbino nel Midrash Luzzatto dentro la sinagoga Levantina © Ferdinando Scianna / Magnum Photos«E se non ce la faccio? – racconta il fotografo di Bagheria, primo italiano a entrare nell’esclusiva agenzia internazionale Magnum –. Quel posto è un teatro nel quale da mezzo millennio si sono svolte vicende straordinarie e terribili. So che i luoghi non smettono mai di raccontare, anche a distanza di secoli. Ma se io non riuscissi a sentire quelle voci, a vedere nella casuale complessità e contraddittorietà dell’oggi le immagini che contengono una qualche traccia di quella storia così densa? Da un pezzo ho però imparato che l’unica risposta all’angoscia dell’inadeguatezza è l’umiltà del lavoro, la tenacia, l’attenzione costante. Confonderti col luogo, con le persone e continuare, ora dopo ora, giorno dopo giorno, a raccogliere sassolini con cui costruire la tua casa. Invocando la fortuna». Il fotografo e le sue gambe si armano dei pensieri di Iosif Brodskij, uno dei poeti contemporanei «che più ho amato, ebreo anche lui, anche se non aveva l’aria di tenerci molto a questa etichetta, come alle altre».

Preghiera del mattino nella sede del gruppo Chabad-Lubavitch © Ferdinando Scianna / Magnum PhotosCompito riuscito. «Ferdinando Scianna – scrive nell’introduzione al catalogo Denis Curti, curatore della mostra e direttore artistico della Casa dei Tre Oci – ha saputo costruire un racconto delicato, ha scelto una prosa senza malinconia, ha cercato affinità elettive con affetto e gratitudine. Ha dato forma a una memoria collettiva elevando e distinguendo singole storie: se ne avverte la bellezza e la solennità. Il dolore mai urlato dell’Olocausto. Dentro queste fotografie ci si orienta. Con il linguaggio degli affetti, la grammatica dei corpi». E si può cogliere «il registro multiplo che caratterizza i frequentatori del ghetto – come fa notare Donatella Calabi, direttrice del Comitato scientifico per i 500 anni del Ghetto diVenezia –: persone conviventi negli stessi spazi ridotti, non sempre capaci, né desiderosi di interloquire fra loro, e che tuttavia contribuiscono insieme a farne un sito particolare, dotato di un fascino costruito sulle sue vicende secolari e sulle commistioni: cittadini o turisti che frequentano uno spazio urbano storicamente connotato, indifferenti gli uni agli altri; depositari dell’antica cultura e della religione ebraica, che desiderano raggiungere “silenziosamente” il massimo di integrazione con la città; abitanti di recente immigrazione per i quali (come altrove nel mondo) la manifestazione della propria identità passa per l’abbigliamento anomalo e i comportamenti separati». Più mondi che si parlano in quello che fu il «recinto» ebraico di Venezia.
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