sabato 7 dicembre 2019
Un libro dello storico Shama: centrale è quell’alba del 5 gennaio 1895, quando andò in scena il “rito” di umiliazione dell’innocente capitano Alfred Dreyfus, in realtà ebreo e buon francese
la degradazione di Dreyfus, interpretato da Louis Garrel, in una scena del film di Roman Polanski “L’ufficiale e la spia”

la degradazione di Dreyfus, interpretato da Louis Garrel, in una scena del film di Roman Polanski “L’ufficiale e la spia”

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Il periodico affiorare, per fortuna sporadico e limitato, di un antisemitismo che ha come sua unica origine l’idiozia non è degno nemmeno di commento: lo si nobilita perfino inserendolo in un di per sé già condannabile razzismo antisemita. L’insulto e lapidi tombali non né nemmeno barbarie terroristica: è pura bestialità. Lo si nobiliterebbe perfino attribuendole un sia pur sinistro movente ideologico-politico. Ciò non toglie che riguardo ad esso ci si debbano porre dei problemi: dalla profondità dell’incultura degli autori di certi atti, all’indifferenza e al sostanzialmente scarso rigore con il quale essi sono perseguiti, fino al pericolo ch’essi alimentino un circolo vizioso tra infami pulsioni di qualche maniaco e tentazioni strumentalizzatrici. Anche per questo giunge davvero opportuna la pubblicazione dell’edizione italiana del secondo volume della monumentale La storia degli ebrei di Simon Schama. L’editrice Mondadori va sul serio ringraziata per la generosità e il coraggio con i quali ha sostenuto questo impegno. Il primo volume, dal sottotitolo In cerca delle parole (2014), ha affrontato il problema delle origini dell’ebraismo e dell’identità religioso-nazionale ebraica, della problematicità costituita dal suo sempre difficile convivere con altri popoli e altre culture, della difficoltà perfino di poter concepire e definire un “popolo ebraico”, una “nazione ebraica” (non parliamo di una “razza ebraica”, scellerata invenzione settenovecentesca), al di là di una lingua, di una cultura e quindi in ultima analisi di una tradizione e di una identità ebraiche (sostantivi, gli ultimi due, già di per sé ambigui ed ardui a gestirsi).

Ed ecco che ora giunge il secondo volume della fatica di Schama, dal titolo L’appartenenza. Dal 1492 al 1900 (pagine 808, euro 40). Già le coordinate cronologiche scelte dicono di per se tutto: dal fatidico e forse fatale 1492, al punto d’arrivo formale dell’indagine, lo splendido 1900 del culmine della Belle Époque e dei fasti spensieratamente osceni del “Ballo Excelsior”. Ma il momento clou della sua erudita e drammatica ricerca è il 5 gennaio del 1895: un’«alba tragica» dell’incipiente Novecento, il punto d’arrivo dei pogrom russi, della lucida e pacata follia del signor de Gobineau, dell’erudita e implacabile sapienza del Maurras. Ora, quel giorno e il suo contesto sono mirabilmente narrati nell’ultimo, avvincente capolavoro di Roman Polanski. Quel 5 gennaio del 1895, nella gelida spianata dell’École Militaire di Parigi, uno spietato rito cavalleresco mise fine alla carriera del capitano Alfred Dreyfus, ebreo e buon francese, ingiustamente condannato all’espulsione dall’esercito, alla prigione e all’infamia in quanto ritenuto (a torto) reo di alto tradimento. Il cerimoniale di degradazione, una vera e propria morte civile, prevedeva che gli fossero strappate dalla giubba le spalline e le insegne di grado, mentre un suo collega spezzava sul ginocchio la sua spada. Il livello raggiunto dalle polemiche relative a quel personaggio e a quell’episodio chiarisce come quel che di lì a una trentina circa di anni dopo avrebbe detto e scritto Adolf Hitler non fosse il frutto solitario e inatteso di un genio malvagio, bensì la feroce farfalla nata da un’infame crisalide: l’antisemitismo in parte generato purtroppo senza dubbio dall’antigiudaismo cristiano e quindi peggiorato, degenerando, in razzismo antisemitico.

Vorremmo poter affermare che tra l’atteggiamento puramente religioso e culturale dell’antigiudaismo e la pesante volgarità dell’antisemitismo materialistico e deterministico non c’è alcun rapporto. Ma purtroppo i fatti già abbondantemente rilevati da altri autori (da Norman Cohn a Ruggero Calimani) parlano un linguaggio differente. Già nella Spagna dei Re Cattolici si era parlato della limpieza de sangre, del “sangue puro” dei cristianos viejos, devoti da generazioni alla vera fede, e della corruzione del sangue dei cristianos nuevos convertiti di fresco e magari per forza, ch’erano rimasti – come moriscos o marranos – ostinati nel loro vecchio credo musulmano o ebraico. Martin Lutero tornava poi sul tema del caratteristico del foetor iudaicus proveniente dalla pelle e dagli abiti del “popolo deicida”. Voltaire dal canto suo rovesciava sugli avidi e sporchi figli d’Israele tutto l’odio e il disprezzo che aveva represso in anni di pareri e di scritti dedicati a sostenere la tolleranza. Da lì attraverso Marx e Wagner si sarebbe sviluppato un antisemitismo intellettuale e perfino “scientifico” che dalla Russia e dalla Polonia, soprattutto a causa del crescere del numero dei migranti, si sarebbe di lì a poco radicato soprattutto nella Francia dei Maurras, dei Daudet, dei Drumont e dei Barrès: ben più micidiali delle sfuriate di Céline o del sistematico razzismo filosemita dei collaborazionisti francesi durante la Seconda guerra mondiale, a esaminare i quali il libro di Schama non arriva.

Ma la tragedia è proprio questa. Per almeno quattro secoli gli ebrei avevano continuato a vivere tra i cristiani affrontandone ora i sarcasmi ora le violenze, cercando a loro volta di mantenersi puri attraverso non solo l’incrocio, bensì anche il contatto. Eppure, a loro volta, nel momento stesso nel quale essi ambivano allo Ha-Makom, un luogo futuro al quale potersi sentire al sicuro e appartenere, una patria che fosse “terra senza popolo” per loro, “popolo senza terra”, lo squallore e la prigionia dei ghetti poteva apparir loro quasi gradita: una cuccia calda nella quale mantenersi al riparo dalla contaminazione dei goim. D’altronde, specie con l’avanzare della Modernità, l’attrazione per un’appartenenza diversa poteva lasciarsi sentire, e molti ne erano conquistati. Lo stesso nascente movimento sionista – un movimento sorto nell’Ottocento, quindi scaturito da un desiderio di patria condiviso in tutta Europa –, quando si profilò la possibilità di un ritorno all’autentico Eretz Israel, non per questo abbandonò l’ammirazione nonostante tutto per l’Europa e per le sue conquiste scientifiche e civili. L’appartenenza divergeva dalla tentazione assimilatrice: eppure, appartenenza e assimilazione potevano sia pur problematicamente convivere, ci si poteva sentir ebrei ( Ivri anokhi, “noialtri ebrei”) e sinceramente patrioti del Paese ospitante. Come il capitano Dreyfus, ebreo e alsaziano d’origine eppure buon patriota francese; come più tardi Marc Bloch; come i tanti giovani patrioti tedeschi d’appartenenza ebraica che nel 1914 avevano risposto all’appello del Kaiser e della patria accorrendo volontari sotto le armi, e molti dei quali erano caduti e decorati di croce di ferro. È sulla tragedia di quegli anni che Simon Schama, studioso illustre, celebre accademico e giornalista pluripremiato, arresta la sua narrazione.

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