domenica 20 novembre 2022
Innovativo testo sulla minoranza religiosa saldamente presente a Roma già nel II secolo a.C., che con precisione ed efficacia connette il tema con le millenarie vicende del Bel Paese
Profughi ebrei negli appartamenti papali di Castelgandolfo nel 1943

Profughi ebrei negli appartamenti papali di Castelgandolfo nel 1943 - Siciliani

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Sebbene da decenni ormai di ebrei e cultura ebraica si scriva e si parli con frequenza (non solo nella Giornata della memoria), l’ebraismo italiano nel suo insieme resta ancora un pianeta sconosciuto. Pochi saprebbero rispondere alle domande: da quando ci sono ebrei in Italia? Dove vivevano nei lunghi secoli del Medioevo? Perché sono scomparsi nel meridione? Come e a quale scopo sono stati istituiti i ghetti? E soprattutto, che rapporto hanno avuto con la società non ebraica, con i diversi regni e regnanti del Bel Paese, con la Chiesa cattolica, con le istituzioni pubbliche prima sabaude e poi repubblicane? E come hanno bilanciato, all’apertura dei ghetti, la loro identità allorché divennero “uguali” ai non ebrei nell’italianità pur restando “diversi” nella religione e nel senso di appartenenza a una tradizione e una storia più grandi, le cui radici affondano nella narrativa biblica, nel conflitto tra giudei e romani, nell’elaborazione talmudica e nella dispersione in ogni angolo del mondo? A queste, e a molte altre domande, risponde con intelligente sintesi la storica Anna Foa, già docente alla Sapienza e tra i massimi esperti di ebraismo europeo e in particolare di quello italiano, in un volume appena uscito che porta il titolo Gli ebrei in Italia, con l’ammiccante sottotitolo “i primi 2000 anni” (Laterza, pagine 290, euro 24). Accuratamente documentate, le vicende della minoranza ebraica che vive nella penisola italica sono qui narrate, in una prosa che al contempo affabula e stimola, sin dal loro inizio, cioè dall’arrivo a Roma dei primi giudei, in quanto emigrati dalla Giudea, da prima che i Flavi distruggessero Gerusalemme deportandoli nella capitale dell’impero dopo il 73, come attesta fino a oggi l’arco di Tito nel Foro romano. Siamo soliti porre fine all’epoca medievale con l’umanesimo e il rinascimento, ma pochi li connettono all’arrivo in Italia settentrionale di diverse ondate di ebrei (dalla Spagna, dal Portogallo e dalla Francia) che costellarono di piccole comunità la pianura padana e il centro Italia, accolti da città importanti come Livorno, Ferrara e Venezia, dove diedero un enorme contributo al diffondersi della cultura umanistica. L’ebraico, nel XV e XVI secolo, era considerata una lingua divina i cui manoscritti custodivano profondi segreti; pertanto ogni umanista, cardinale o nobile che fosse, cercava di impararlo o almeno di avere amici ebrei che li traducessero in latino, specie se opere di qabbalà. Alcuni ebrei furono essi stessi grandi intellettuali, come il neoplatonico Leone Ebreo, l’autore dei Dialoghi d’amore, figlio dello statista don Itzchaq Avravanel che, cacciato dalla Spagna, riparò a Napoli e poi a Venezia (quei Dialoghi furono forse scritti in ebraico e poi tradotti in italiano). Ma è nel racconto della vita ebraica nell’Italia moderna e contemporanea che Anna Foa offre il meglio delle sue competenze. Non tutti sanno ancora, ad esempio, che il ghetto è un’istituzione nata proprio a Venezia nel 1516, per volontà del Senato della Repubblica Serenissima, che “chiudendo” i propri ebrei nella zona periferica di Cannaregio li voleva per lo più proteggere da malintenzionati, per invidia commerciale o per avversione religiosa. Quarant’anni dopo, ricorda Anna Foa, papa Paolo IV pensò che un ghetto fosse necessario anche a Roma, e poi ad Ancora e persino ad Avignone, là dove gli ebrei già vivevano, nel cuore delle città (gli altri stati e staterelli italici si adeguarono). Non già, come all’inzio, per proteggere gli ebrei, ma per separarli dal mondo cristiano e perché fosse più facile tentare di convertirli, con prediche forzate che gli ebrei erano periodicamente costretti ad ascoltare. Sebbene i ghetti funzionassero anche per il controllo interno alla comunità, facilitando l’osservanza delle norme religiose, incrementarono soprattutto la povertà e un senso di discriminazione, istigarono apostasie e contribuirono ai pregiudizi antiebraici, come spesso succede verso mondi e persone di cui si ignorano fede e costumi (si pensi alle nefande accuse di omicidio rituale che traghettarono velocemente dal medioevo all’età moderna). Lo statuto albertino del 1848 e la riunificazione di Roma al regno d’Italia segnarono la fine dei ghetti e della segregazione ebraica, con effetti però ambivalenti: emancipazione e libertà vennero pagate con un progressivo processo non solo di integrazione, ma anche di assimilazione alla cultura italiana, a spese degli elementi caratterizzanti l’identità ebraica come lo studio della Torà, la conoscenza dell’ebraico e la pratica dei precetti. Questo trend modernizzante è ben spiegato da Anna Foa e messo in prospettiva di quel terremoto, inaspettato come tutti i terremoti, che furono le leggi razziali, o meglio razziste, del 1938, volute dal parlamento fascista e controfirmate dal re. Uno spartiacque nella vita degli ebrei italiani. È storia più nota, del Novecento, triste capitolo che prelude alla deportazione degli ebrei italiani nei lager tedeschi, stavolta senza discriminazione di sesso, età e fedeltà religiosa. Per volontà dei tedeschi, certo, ma con la volenterosa collaborazione dei fascisti italiani, e persino di molte regie autorità. Vicende sì conosciute, ma non nell’elenco delle responsabilità, che questo volume riesce a precisare senza fare sconti a nessuno, forte soltanto del rigore della ricerca storia e di una consolidata storiografia. Non fa sconti neppure allo stesso mondo ebraico, Anna Foa, quando tratta la delicata questione dei conflitti interni, tra sionisti e antisionisti ai vertici della comunità romana e dell’unione delle comunità israelitiche italiane, o quando rivisita il caso Zolli, rabbino capo di Roma dal ‘40, che si salvò dalle deportazioni (si era nascosto) e che nel febbraio del ’45 chiese il battesimo cattolico. Un caso che non può essere compreso se trattato ideologicamente, dai detrattori oppure dagli apologeti, ma che va contestualizzato, spiega la storica, e ricostruito nel frangente difficilissimo di quei mesi. A distanza di tanti decenni, e sebbene molte ferite restino aperte, anche su Israel/Eugenio Zolli si può fare chiarezza alla luce della storia. Ecco il punto, la tesi dell’intero volume: la storia degli ebrei italiani è un capitolo della storia d’Italia, una storia particolare (a tratti particolarmente dolorosa e complessa) e nondimeno non separata né separabile dalla storia complessiva di questo crogiuolo di popoli, oggi uniti come giovane nazione, a sua volta inserita nella storia di un’Europa dove ebrei e non ebrei devono affrontare inedite sfide. La storia ebraica in Italia nel terzo millennio non può che essere, nel bene e nel male, una storia europea. Quella che stiamo scrivendo proprio in questi mesi.

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