giovedì 9 dicembre 2021
In “Sulle spalle di Gerione” Peter Kuon ripercorre i tentativi di riscrittura da parte di molti autori del secolo breve, da Joyce a Primo Levi e da Pasolini a Borges
Il monumento a Dante Alighieri in Piazza Santa Croce a Firenze

Il monumento a Dante Alighieri in Piazza Santa Croce a Firenze - Vincenzo Pinto / Afp

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Più commedia che mai, meno divina del solito. Si potrebbe sintetizzare così il percorso che Peter Kuon affronta in Sulle spalle di Gerione (Carocci, pagine 296, euro 29,00), uno dei più originali tra i numerosi contributi che stanno accompagnando questo centenario dantesco. Professore di Letterature romanze all’Università di Salisburgo e vicepresidente del Comitato generale premi della Fondazione Balzan, nel suo saggio Kuon prende in esame le «riscritture novecentesche della Commedia » da un’angolatura particolare: quella della rielaborazione in prosa, lungo una linea che difficilmente ripercorre il disegno complessivo del poema, preferendo insistere su determinati nuclei tematici o su specifiche situazioni narrative. Non che nel XX secolo il Dante dei poeti manchi di centralità o di interesse, come lo stesso Kuon ribadisce in premessa attraverso l’elenco di esperienze cruciali quali i Cantos di Ezra Pound e Omeros di Derek Walcott. Rispetto a queste riscritture in versi (non di rado grandiose proprio in ragione della conclamata impossibilità di adeguarsi il proprio modello), la Commedia dei prosatori si attesta su un diverso registro, apparentemente meno preoccupato della dimensione teologica che, sia pure in forma contraddittoria, continua a emergere in sede poetica. Quello che potrebbe sembrare un difetto in senso tecnico, come di qualcosa che non sia lì dove ci si aspetterebbe di trovarlo, diventa nell’analisi di Kuon l’elemento centrale di una riflessione che dalla letteratura si estende all’intera vicenda storica e culturale del secolo breve. Nel momento in cui si pongono alla scuola di Dante, gli scrittori del Novecento sono infatti chiamati a confrontarsi con un sistema di valori che con il passare del tempo si è fatto pressoché inapplicabile. La giustizia ultraterrena non può più seguire i criteri retributivi sanciti dalla morale medievale, ma a rimanere fortissima è l’istanza etica posta all’origine della Commedia. Detto altrimenti, Dante è ancora percepito come giudice esemplare, solo che il verdetto non può più essere pronunciato secondo le sue regole. Da qui l’insistenza degli autori esaminati da Kuon sulla componente grottesca che, pur presente nel poema, non ne costituisce affatto la cifra esclusiva. Del resto, anche il titolo del saggio riprende un’immagine tratta dall’Inferno, la cantica nella quale la propensione all’invettiva e allo scherno è più evidente. Gerione, com’è noto, è la creatura alata mediante il cui intervento Dante e Virgilio riescono a superare il burrone che li separa da Malebolge. Le «cento rote» descritte in volo dal mostro sono un riferimento ai cento canti della Commedia, opera di finzione attraverso la quale la verità acconsente a rivelarsi. Un sottile filo dantesco percorre anzitutto Ulisse di James Joyce, il primo dei romanzi su cui si sofferma Kuon e senza dubbio il più influente per il radicarsi della tradizione nella quale rientrano tra l’altro le rivisitazioni dantesche dell’Aleph di Jorge Luis Borges e delle Porte del cielo di Julio Cortázar. «Parodie serie», le definisce Kuon, dato che il gioco linguistico e strutturale denuncia sì l’inconsistenza di ogni pretesa imitazione dantesca, ma nello stesso tempo conferma il significato concettuale ancora attribuito alla Commedia. Se quel libro non si può riscrivere, in definitiva, è perché la nostra epoca non lo consente. Ci si può sempre provare, certo, ed è proprio questo che fanno il Pier Paolo Pasolini dell’interrotto La Divina Mimesis, resoconto visionario nel quale la parola si mescola all’immagine fotografica, e il tedesco Peter Weiss, che dal progetto di un puntuale rifacimento del poema passa alla robusta tessitura dantesca del suo capolavoro romanzesco, L’estetica della resistenza (purtroppo mai tradotto in italiano, come rileva lo stesso Kuon). Con Weiss ci siamo spostati in una zona di insofferenza politica e civile, nella quale trova posto anche Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini. Ancora più riconoscibile è un altro arcipelago di testi, incentrati sull’analogia tra l’immaginazione infernale del poema e la brutalità dell’universo concentrazionario novecentesco. Oltre che sull’assai dibattuta partitura dantesca di Se questo è un uomo di Primo Levi, Kuon richiama l’attenzione su Il primo cerchio di Aleksandr Solzenicyn, su La caduta di Albert Camus e su Lo spopolatore di Samuel Beckett, che in questa terribile fantasia di distruzione (il dépeupleur è un gigantesco cilindro nel quale gli esseri umani sono ammassati fino a perdere ogni connotazione individuale) pare rivedere nel segno di una maggior coinvolgimento etico la disinvoltura che caratterizzava i rimandi alla Commedia nel giovanile Murphy. Come si sarà compreso, nel XX secolo Dante è stato percepito principalmente come testimone di una realtà infernale oppure, per analogia, come annunciatore del crollo della barriera che tiene distinti i vivi dai morti. Kuon rende conto di questa ulteriore accezione occupandosi di un gruppo abbastanza compatto di autori italiani: Giorgio Manganelli, Federico Fellini (alla sceneggiatura del mai realizzato Il viaggio di G. Mastorna viene giustamente riconosciuto lo statuto di opera letteraria), Daniele Benati e Gianni Celati, che di Sulle spalle di Gerione è anche il dedicatario. Ai loro nomi si sarebbe forse potuto aggiungere quello di Antonio Moresco, che nelle sue installazioni romanzesche – si pensi a Gli increati, ma anche alla novella La lucina – ha spesso praticato un dantismo scabro e metafisicamente risentito. Senza dimenticare Giorgio Pressburger, che con Nel regno oscuro e Storia umana e inumana la sua Commedia l’ha davvero portata a termine. Pienamente novecentesca e, nonostante questo, più divina che mai.

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