giovedì 14 maggio 2009
L’erede del costruttore della Sagrada Familia, riscoperto solo negli ultimi decenni, ne riesamina tecnica, spiritualità e impegno Il geniale artista prendeva insieme strutture e colori per farne pittura e scultura integrate in un unicum nelle costruzioni, come nella bellissima cattedrale di Barcellona, modello insuperato
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Gaudí nacque nel 1852, passò la sua infanzia a Reus e si tra­sferì a Barcellona nel 1869 per frequentare la scuola di archi­tettura, rimanendo in questa città fi­no alla morte, nel 1926. La sua voca­zione fu l’architettura intesa come arte integrale; altro non fece in tutta la vita. La sua formazione come architetto fu sostanzialmente diversa da quel­la dei suoi compagni di studi. Lavorò presso altri architetti per guada­gnarsi da vivere, collaborò nel labo­ratorio di un abile artigiano ed ebbe alti e bassi nei voti durante gli studi alla scuola di architettura, ma ap­profondì costantemente la sua for­mazione nella biblioteca del centro. Partecipò al nascente movimento e­scursionista catalano, che predica­va un maggior attaccamento alla ter­ra per promuoverne una migliore co­noscenza. Si riunì all’Ateneo barcel­lonese, situato allora nel Teatro Prin­cipal de la Rambla, con studiosi e scrittori. Il suo rapporto con il colle­ga Juan Martorell fu determinante, poiché quest’ultimo non solo lo pre­sentò a Güell, ma anche a Bocabel­la, il quale gli diede l’incarico di pro­seguire i lavori della Sagrada Fami­lia, che divenne la sua opera princi­pale, cui dedicò il maggior numero di ore di lavoro della sua vita. Da quel giovane sconosciuto che e­ra, venuto da Reus a Barcellona, Gaudí divenne in breve tempo un ar­chitetto di enorme prestigio. Si può dire che tra tutti i pro­fessionisti di Barcellona so­lo Luis Domènech i Monta­ner, associato con José Vila­seca Casanovas, poté com­petere con lui. Uno dopo l’altro, i grandi industriali ca­talani lo contattarono per af­fidargli degli incarichi. Dopo i lavori eseguiti per Güell nella villa di Les Corts de Sarrià, dopo il palazzo della calle Conde de Asalto, ebbe occasione di ricevere l’inca­rico di mons. Grau, vescovo di Astorga, per la costruzione del pa­lazzo episcopale di quella città; e per tramite del prelato, ebbe l’opportu- nità di ricevere l’incarico per la rea­lizzazione della Casa de Los Botines, a León. Un altro religioso esempla­re, il padre Ossó, gli affidò la costru­zione del Collegio e Casa generalizia delle Teresiane, nella calle de Gan­duxer, mentre egli andava svilup­pando il vasto progetto della Sagra­da Familia. Seguirono poi i Figueras, per i quali costruì la splendida casa di Bellesguard; e i Calvet, con la ca­sa della calle de Caspe, che gli valse il premio del Municipio per il miglior edificio dell’anno 1900. All’inizio del secolo, la sua attività di architetto si moltiplicò. Non poté ve­dere realizzato il progetto delle Mis­sioni cattoliche d’Africa, a Tangeri, affidatogli dal secondo marchese di Comillas, e disegnato nel 1892-1893, ma costruì insieme al suo collabo­ratore Berenguer, le officine di Güell, sulla costa di Garraf, terminate nel 1897. Dal 1903 lavorò al complesso caso dell’adeguamento liturgico del­la cattedrale di Maiorca, voluto dal vescovo Pedro Campins Barceló. E mentre se ne occupava, realizzò le due grandi opere del paseo de Gra­cia, le case Batlló e Milà. Tra lo stu­pore dei barcellonesi, trasformò la casa di José Batlló in un poema mu­sivo di cristalli rotti, ceramiche mul­ticolori e pietra di Montjuïc ridotta in forme ossee. A pochi isolati di di­stanza, l’immenso terrazzo della Ca­sa Milà fu coronato con un gioco in­verosimile di comignoli e sbocchi di scale, creando un mondo di forme che non ha nulla a che vedere con l’architettura precedente né con ciò che fu realizzato dopo di lui. Mentre si occupava di Maiorca, della Sagra­da Familia e di Casa Milà, vide la po­sa della prima pietra della chiesa del­la Colonia Güell di Santa Coloma de Cervelló, edificio di cui poté costruire soltanto la cripta, una delle opere più importanti di tutta la storia dell’ar­chitettura. A partire dal 1910 la sua salute, vittima delle febbri maltesi, peggiorò visibilmente e dovette tra­scorrere periodi di riposo a Vic e poi a Puigcerdà. Nel giugno 1911 si sentì prossimo alla morte e a Puigcerdà dettò testamento. Con tutto ciò, la sua immaginazione creatrice non venne meno. Gaudí, smagrito, debi­litato e malaticcio, fu capace di im­maginare una trasformazione della città di Vic in omaggio al filosofo ca­talano Jaime Balmes nel centenario della nascita, benché vi fosse anda­to per trascorrere un periodo di as­soluto riposo. Nel 1911 disegnò la facciata della Passione della Sagrada Familia; nei cinque anni seguenti e­laborò il simbolismo liturgico del tempio, trovando anche il tempo per seguire un corso di canto grego­riano e studiare si­stemi di campane tu­bolari, così come gli effetti della luce e dei suoni all’interno del tempio. Quando un disgraziato incidente lo portò a essere ricoverato nell’ospe­dale dove poi morì, dopo tre giorni di agonia, il 10 giugno 1926, era im­pegnato nel perfezionamento delle forme strutturali e decorative della Sagrada Familia e stava fabbricando con le sue stesse mani alcune lam­pade votive per la cripta. Il suo fu­nerale fu, a dispetto delle espresse volontà testamentarie, un evento cit­tadino, e il suo corpo fu portato per il riposo eterno nella cripta del tem­pio tanto amato. Dopo la sua morte, l’architettura da lui creata cadde vittima della moda razionalista e fu dimenticata se non disprezzata. La guerra civile spa­gnola e la seconda guerra mondiale cambiarono il volto del mondo, e fu solo nel 1952, in occasione del cen­tenario della nascita di Gaudí, che critici e architetti posarono nuova­mente lo sguardo su un’architettura che li inquietava e li sorprendeva. A­vrebbe potuto essere un ritorno ef­fimero, come i tanti revival così fre­quenti nella storia dell’architettura, ma non fu così. Quando ricercatori, spagnoli e non, tornarono a studiare Gaudí, si rese­ro conto dell’atemporalità della sua architettura, basata su princìpi na­turalistici espressi per mezzo della geometria reglada, cioè, l’uso di su­perfici curve composte da linee ret­te, un linguaggio nuovo nella co­struzione. Gaudí, inoltre, espresse un’architettura totale, poiché nelle sue opere non c’era distinzione tra struttura e decorazione; nei suoi e­difici entrambe vennero realizzate simultaneamente, al punto che non è possibile discernere dove inizia l’u­na e termina l’altra. Un’architettura che non incorporava successiva­mente scultura e pittura, poiché scultura e pittura nascevano insie­me a essa. La figura di Gaudí si profila oggi co­me un fenomeno isolato e sconcer­tante nel tradizionale «balletto» di stili e movimenti. È stato detto che Gaudí non partecipò al movimento moderno, il che è vero, per la sem­plice ragione che il movimento non è né antico né moderno: è dinami­smo, progresso e continuità. La «filosofia» gaudiniana, la sostan­za del suo lavoro, la sintesi della sua opera si potrebbero esprimere di­cendo che niente è arte se non deri­va dalla natura, dalla quale proven­gono le forme più straordinarie, bel­le e ben concepite; per tradurre in e­difici le forme, le strutture e i colori che la natura crea e proporziona, lo strumento più adeguato è quello del­la geometria reglada, poiché la na­tura stessa ha usato questa geome­tria nella composizione della forma di una montagna o delle ossa degli animali. L’osservazione non intellettualistica della natura è fonte della migliore i­spirazione, ma sempre tenendo pre­sente che la natura è opera del Crea­tore e che senza la spiritualità l’ar­chitettura non riesce a superare i li­miti della mera tecnica, magari a­dorna di una retorica pseudofiloso­fica. Se a tutto questo si unisce una dedizione esclusiva e totale al pro­prio lavoro, allora può emergere u­na figura del calibro di Gaudí, per­sonaggio oggi leggendario, catalano universale, ma soprattutto architet­to, e perciò, innanzitutto, responsa­bile di un gruppo di operai insieme ai quali ricreare, con l’immaginazio­ne umana, quelle forme che dal prin­cipio del mondo compongono que­sto pianeta.
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