domenica 29 gennaio 2023
Dai “minstrel show” alla lirica il “blackface” è stato veicolo di visioni razziste e colonialiste: oggi è al bando, ma c’è chi lamenta eccessi di “correttezza politica”. La nuova rivista "Calibano"
Un’opera realizzata da Simone Ferrini per il primo numero della rivista “Calibano” (particolare)

Un’opera realizzata da Simone Ferrini per il primo numero della rivista “Calibano” (particolare) - © Simone Ferrini

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Che cos’è il “blackface”? Termine pressoché sconosciuto in Italia fino a tempi recenti, è legato ai minstrel show, una tradizione del teatro itinerante americano molto in voga nel Diciannovesimo secolo e anche per buona parte del Ventesimo secolo, in cui attori bianchi recitavano la parte di personaggi neri (afroamericani), con tratti etnici esagerati, caricaturali, ostensibilmente mirati a “informare” il pubblico bianco degli usi e costumi dei neri americani, ma che in realtà proiettavano grotteschi stereotipi razziali. I minstrel show, in verità, furono uno dei principali veicoli di disseminazione di conoscenza del mondo nero fra la popolazione americana bianca. Si potrebbe dire, anzi, che gli stereotipi generati dai minstrel show agirono da elemento strutturante dell’immaginario razzista americano, con profonde radici nell’istituzione della schiavitù. Tant’è che negli Stati Uniti, il blackface, ossia l’uso di trucco nero da parte di attori bianchi, è considerata una pratica razzista ed è spesso condannata e bannata dalle rappresentazioni teatrali e cinematografiche. Il mondo dell’Opera si è posto piuttosto tardi il problema dell’uso del blackface, citando fedeltà filologica ad allestimenti d’epoca e alle disposizioni sceniche originali. Ma nel 2015, la Metropolitan Opera House di New York prende la decisione storica di smettere di truccare di nero il volto del cantante che impersona Otello nell’opera omonima di Verdi, e Aleksandr Antonenko diventa così un Otello bianco. Da allora in poi il Met proibisce l’uso del trucco nero per la pelle nelle sue produzioni . (...) A partire dal 2015 la controversia diventa molto accesa. Moltissimi spettatori, critici e cantanti biasimano le scelte del Met, accusandole di un eccesso di “political correctness” e di tradimento della visione artistica originaria di compositori e librettisti. Per di più si afferma che con un Otello bianco le tensioni razziali al centro dell’opera vengano meno. Nell’Aida l’uso del blackface è esplicitamente menzionato nella “Disposizione Scenica per l’Opera Aida, compilata e regolata secondo la messa in scena del Teatro alla Scala”, ossia le note per l’allestimento pubblicate da Giulio Ricordi nel 1873, due anni dopo la prima dell’opera al Cairo. Il critico postcoloniale Edward Said ha dedicato attenzione all’opera “egiziana” di Verdi nella sua dimensione africana e imperiale. Quel Said che riformulò il significato del termine “orientalismo” ponendolo come chiave di lettura dei testi del canone occidentale, sostenendo che romanzi come Cuore di tenebra di Joseph Conrad o Kim di Rudyard Kipling “inventano” un Oriente e un’Africa immaginari fatti a uso e consumo del lettore e spettatore europeo, si occupò di musica nell’ultima parte della sua vita. E scrisse anche dell’Aida nel suo ormai classico libro Cultura e imperialismo, in cui esplora il contesto politico-storico in cui Verdi venne a comporre l’opera. La tesi di Said è che quest’opera di Verdi, voluta dal viceré d’Egitto, venne prodotta per una classe economica e sociale in ascesa, sia egiziana sia europea (il Cairo all’epoca aveva buona parte di popolazione europea) che aspirava alla modernità ma che comunque rimaneva in una condizione di sudditanza al limite del vassallaggio rispetto alle potenze coloniali britanniche e francesi. La trama dell’Aida, che non si risolve a favore del faraone, metteva in guardia l’Egitto contro pretese territoriali nel corno d’Africa (come l’Etiopia) su cui Italia, Francia e Inghilterra avevano mire espansionistiche. In tal modo la messa in scena di Aida diventa «un teatro del potere e della conoscenza» europei, mentre il vero scenario dell’Egitto del Diciannovesimo secolo è semplicemente scomparso. La visione di Verdi di un’opera d’arte con un valore totalmente autonomo viene perciò messa in discussione da Said, che la contestualizza e la incentra sulle circostanze storiche. Un’opera considerata la quintessenza della grande tradizione lirica dell’Ottocento europeo fu in realtà prodotta per un teatro che non era né a Milano, né a Parigi, né a Vienna, ma al Cairo, crocevia di fedi, di imperi, di civiltà egiziane, ottomane, arabe, musulmane ed europee. Questi effetti si fanno sentire nell’opera, nonostante Aida cerchi di evocare un Egitto atemporale e antico che gli europei amavano ricordare come “vero” e autentico.(...) C’è infine un altro aspetto sulla questione delle disposizioni sceniche originarie pubblicate da Ricordi che (...) richiedono che la pelle di Aida e Amonasro sia di colore «olivastro rossiccio-scuro». Non è in realtà pelle nera ma un preciso richiamo alle teorie antropologiche italiane sulla cosiddetta “razza etiope”. Nell’Ottocento, come ricorda lo storico David Forgacs, gli etiopi non venivano considerati neri ma discendenti da razza semitica o bianca; o, nelle parole dell’antropologo Aldobrandino Mochi in una lezione data a Firenze nel 1902, «un’estesa gamma etnica che va dal bassissimo tipo negro all’alto tipo semitico ». Gli etiopi erano rappresentati con la pelle “rossiccia” perché secondo la teoria antropologica dell’epoca si consideravano essi stessi una razza a parte, come affermava l’antropologo Alberto Pollera ancora nel 1922: «L’abissino sa di non essere di origine nera, tanto che non ammette su questo punto alcuna discussione: chi dicesse ad un abissino che egli è nero, commetterebbe verso di lui sanguinosa ingiuria. Nemmeno vogliono confessare la loro derivazione dall’incrocio fra semiti e neri, e si attribuiscono il color rosso della carnagione per distinguersi dai bianchi, dai neri, e dalle altre razze». Questa percezione sarebbe presto cambiata. La prima di Aida ebbe luogo al Cairo il 24 dicembre 1871; nel febbraio di quell’anno, Roma era diventata la capitale d’Italia (...). Pochi anni dopo cominciarono le prime esplorazioni commerciali e geografiche nel corno d’Africa e la prima colonia italiana, l’Eritrea, viene fondata nel 1890, seguita dalla Somalia. L’at-teggiamento italiano verso l’Africa oscillava fra l’immaginazione orientalista e le nascenti pretese di conquista; la rappresentazione dei popoli africani cominciava a subire quel lento processo di “annerimento” della pelle che avrebbe portato alla razzializzazione degli etiopi come popolo inferiore da dominare. La razzializzazione degli etiopi sarebbe servita da giustificazione ideologica per la conquista dell’Etiopia nel 1935 (...). Ecco perché la questione del blackface nell’Aida ha radici nel rapporto coloniale e razziale degli europei con il mondo africano e arabo; è una scelta intrisa di storia, non semplice fedeltà alla visione di Verdi.

Un’opera realizzata da Simone Ferrini per il primo numero della rivista “Calibano” (particolare)

Un’opera realizzata da Simone Ferrini per il primo numero della rivista “Calibano” (particolare) - © Simone Ferrini

Nasce "Calibano", rivista-laboratorio: «Il teatro è un'arena di democrazia»

Numeri monografici legati alle produzioni dell’Opera di Roma Il prossimo toccherà “Madama Butterfly e le discriminazioni di genere tra Oriente e Occidente”

Si chiama Calibano, come il personaggio della Tempesta shakespeariana. «Naturalmente perché Shakespeare è sempre un ottimo riferimento per chi si occupa di teatro. Ma Calibano vuole essere un omaggio ai coraggiosi esempi di riviste-laboratorio che ci hanno preceduto dandosi lo stesso nome». Calibano, come spiega il suo direttore Paolo Cairoli, è una nuova rivista culturale, di approfondimento e di dibattito. L’ha voluta il Teatro dell’Opera di Roma che in questi giorni manda in libreria il primo numero del periodico che non vuole essere un magazine promozionale dell’attività della fondazione lirica capitolina, ma «uno strumento che parte dalla musica e allarga gli orizzonti per costruire percorsi ed esplorare temi che tocchino gli spettacoli in programma ». Martedì al Costanzi va in scena una nuova produzione di Aida di Giuseppe Verdi, sul podio il direttore musicale Michele Mariotti, regia di Davide Livermore. Ecco allora che il tema al centro del primo numero di Calibano, pubblicazione semestrale realizzata in collaborazione con la casa editrice effequ, è quello del cosiddetto blackface, l’usanza di truccare gli interpreti bianchi chiamati a ricoprire ruoli che nel testo teatrale o nel libretto lirico hanno la pelle scura. Usanza da tempo stigmatizzata e messa al bando negli Stati Uniti (ma anche nei Paesi del Nord Europa) tanto che artisti americani si rifiutano di truccarsi o di esibirsi in contesti in cui il blackface è praticato – ultimo caso in ordine di tempo quello del soprano di colore Angel Blue che questa estate ha cancellato la sua esibizione in Traviata all’Arena di Verona perché nella messinscena di Aida, sempre in cartellone nell’anfiteatro, era previsto che l’interprete della schiava etiope venisse truccata in viso. «Vogliamo che il pubblico si interroghi con noi. Perché il teatro è il luogo dove affiorano e si pongono domande, dove si ragiona insieme su risposte possibili e impossibili. Calibano è un altro spazio di democrazia che emana da un luogo, il teatro, che per definizione, per origine e tradizione è arena di scambio e partecipazione democratici», riflette il sovrintendente del Teatro dell’Opera Francesco Giambrone. Ogni sei mesi Calibano arriva in libreria con un tema monografico. Si parte con il nodo del razzismo. Il saggio introduttivo, di cui anticipiamo ampi stralci, porta la firma di Neelam Srivastava, docente di Letteratura postcoloniale alla Newcastle University e indaga le radici colonialiste del blackface. Tema sviscerato attraverso uno sguardo singolare e multidisciplinare, come quello sui colori e sui suoni dei saggi di Marialaura Agnello e Paolo Pecere o come quello sullo sport di Daniele Manusia o quello proposto da Daniele Cassandro che racconta la storia di Michael Jackson. Si parla di Aida e delle “costruzione dell’altro” nel contributo dell’egittologo Enrico Ferraris, ma anche di Otello e di come in origine non venisse truccato di nero per non turbare le coscienze con una storia d’amore tra un uomo proveniente dall’Africa subsahariana e una donna bianca, nell’articolo di Ilaria Narici. Niente foto a illustrare le pagine di Calibano, ma illustrazioni create da artisti che lavorano con le intelligenze artificiali text-to-image: si inizia con i lavori di Simone Ferrini (la copertina, invece, è un collage di Marinella Senatore). Già in lavorazione il numero di maggio quando su Calibano, in concomitanza con la pucciniana Madama Butterfly in scena al Costanzi, si parlerà di discriminazioni di genere tra Oriente e Occidente.

Pierachille Dolfini

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