giovedì 31 marzo 2011
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«To live outside the law, you must be honest»: per vivere fuori dalla legge bisogna essere onesti. Il verso tratto da Absolutely Sweet Mary (1966) è spunto per un incontro sulla giustizia secondo Bob Dylan, in programma oggi (ore 16.30) all’Università Cattolica di Milano con Alessandro Carrera, direttore del programma di italiano all’università di Houston e traduttore del canzoniere dylaniano per Feltrinelli (Bob Dylan, Lyrics 1962-2001, 2006) e il magistrato Armando Spataro, procuratore aggiunto della Repubblica presso il Tribunale di Milano, con l’intervento di Adolfo Ceretti, docente di Criminologia presso l’università di Milano Bicocca. E può sorprendere, per chi ne conosce soprattutto le melodie, scoprire un Dylan poco conciliante, anzi particolarmente crudo e intransigente. «La chiave è tutto in quell’honest, che per Dylan ha un significato specifico: l’essere spietatamente sinceri», spiega Carrera. Dire a tutti ciò che si pensa. Ecco perché i versi di Dylan sembrano fucilate: «I hope tha you die» canta in Masters of war, "Spero che moriate", parole che Joan Baez non riuscì mai a cantare. «Dylan – prosegue Carrera – comincia da subito a riflettere sul tema della giustizia. Fin dai primi anni ’60 si trova infatti nel cuore della lotta per i diritti civili. Ma ciò che gli preme, più che dare una definizione positiva di giustizia, è colpire l’ingiustizia». Con un linguaggio che non si sottrae alla violenza e che si aggrappa alla carne della realtà. «Dylan, nei suoi pezzi di protesta, non punta il dito sui criminali: anch’essi a suo parere sono vittime di coloro che reggono il sistema». Da qui una sfiducia generale nei confronti della giustizia umana: «Nell’istituzione più che nella legge. In The lonesome death of Hattie Carroll del 1963 Dylan canta l’uccisione di una cameriera di colore 51enne da parte di William Zanziger, un giovane e ricco bianco, con un colpo di bastone durante un pranzo in un albergo di Baltimora». Un omicidio preterintenzionale che Dylan lesse sui giornali. «Il testo ripercorre la vicenda ritmata da un ritornello martellante: "Ma voi che filosofate le disgrazie e criticate/ chi ha spavento/ levatevi quello straccetto dalla faccia/ per le lacrime c’è ancora tempo". Il vero cuore del male non sta nell’uccisione della donna, seppure sia un atto irrisarcibile. Il crimine autentico è la pena comminata all’assassino: sei mesi di carcere. Solo a questo punto al pubblico è concesso di affondare "quello straccetto nella faccia/ per le lacrime questo è il momento"». «L’immagine della giustizia che ne emerge non è certo encomiabile né commendevole», commenta Armando Spataro. «Per questo però è per me particolarmente stimolante, perché proprio dall’analisi di queste ingiustizie si può arrivare alla tutela effettiva dei diritti delle persone». Le canzoni di Dylan sono per il magistrato un filtro per l’attualità: «Ho preso in esame i testi solo insieme alla musica. Per provare, sull’onda anche dell’emozione, a rapportarli al presente del nostro Paese. Quando Dylan parla dell’ingiustizia subita dai disperati è per me immediato condurla a ciò che subiscono gli immigrati senza più patria. Non si tratta semplicemente di un fatto di cronaca: con i pacchetti di sicurezza fin dal 2008 hanno trovato spazio spinte discriminatorie, cioè l’opposto della solidarietà che serve. Oppure con Hurricane (sul pugile nero Rubin Carter condannato all’ergastolo, ndr), un inno all’impegno per ristabilire la verità, viene in mente lo sforzo opposto, quello per coprire le verità scomode. O ancora l’appello a guardare in faccia la realtà, sempre attuale, di Blowing in the wind». Ma davvero la giustizia è debole con i potenti e forte con i deboli? «No, assolutamente no – risponde perentorio Spataro –. Alcuni la vorrebbero così: una giustizia adorante, che non intralci mai la politica. Lo spirito di Dylan è lo stesso alla base della protesta contro questa "riforma epocale" della giustizia: non vogliamo, come dicono, difendere supposti privilegi di casta ma solo l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge». Se la giustizia umana (o per lo meno quella americana) è per Dylan destinata al fallimento, ci si può affidare solo a quella divina. Che per Dylan, però, è sintomaticamente quella retributiva dell’Antico Testamento, basata sulla legge del taglione. «E questo anche nella fase della conversione al cristianesimo – spiega Carrera –. Che, non va dimenticato, avvenne nella forma di una Chiesa pentecostale nutrita di millenarismo, dalla profondità ermeneutica piuttosto sbrigativa». Niente a che fare con la nuova legge del perdono enunciata nel vangelo di Matteo: «Esemplare il testo di I and I, "Io e Io", la cui pronuncia è la stessa di "Eye and Eye", occhio e occhio». I toni sono quelli del profeta: «Il profeta sta fuori dalla comunità. Vi entra solo di tanto in tanto, urla le sue parole e se ne va. Non è un politico, non crea consenso. Annuncia una verità che la comunità non accetta: nel caso di Dylan che l’umanitarismo rischia di cancellare l’orrore del crimine». Anche l’amore finisce però per essere sottomesso alla giustizia: «In Dylan l’amore non è mai incondizionato, non diventa mai charitas. Anche l’amore si basa sull’onestà e per questo è destinato al fallimento». E l’innocenza? «Per Dylan – conclude Carrera – non è una virtù, ma una carenza di esperienza. È lo stato dell’infanzia e deve durare il meno possibile: perché mancando di coscienza rischia di trasformarsi presto in colpevolezza».
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