sabato 27 giugno 2009
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L’intreccio tra moralità e comportamenti istituzionali rappresenta una sfida che interroga  l’intera società. Fino a che punto le scelte individuali e il ruolo politico che si è assunto su mandato degli elettori possono essere tenuti separati? Anche  i cattolici si confrontano. De Marco: «La Chiesa guarda sempre al bene comune» Pietro De Marco La lotta politica degli intellettuali è segnata nel Novecento da una discriminazione radicale dell’avversario secondo il valore: l’avversario non è tale, razionalmente e reversibilmente, in momenti e su terreni pubblici particolari. È ormai il Nemico personale e dell’umanità. I classici della scienza politica, che distinguevano rigorosamente i due livelli, avevano intravisto l’eventualità del loro collasso in uno solo:  il nemico assoluto. L’estremo pericolo, avvertivano, risiede nella ineluttabilità di un obbligo morale al conflitto; è la versione moralistica della lotta politica che prolunga il conflitto fino all’annientamento. Perisca pure il mondo. Gli uomini che adoperano simili mezzi contro altri uomini devono bollare la parte avversa come criminale e disumana. La lotta tra valore e disvalore ha una sua devastatrice consequenzialità: l’inimicizia assoluta obbliga a creare criminalizzazioni e svalorizzazioni sempre nuove, fino all’annientamento di ogni vita politica indegna di esistere (Carl Schmitt). La tradizione giuridica, politica, pastorale della Chiesa è stata nei secoli l’antagonista (ed anche il bersaglio diretto, e criminalizzato) dell’inimicizia assoluta praticata dell’intellighenzia. La potestà di giurisdizione della Chiesa si regola distinguendo tra materie che riguardano il foro esterno e quelle pertinenti il foro interno. La giurisdizione di foro esterno si esercita in pubblico e si riferisce al bene comune; l’altra guarda immediatamente e direttamente il bene della singola anima; si esercita nel segreto e ha effetto nella coscienza. Si tratta un paradigma giuridico, in effetti antropologico e teologico-politico, alto e complesso. Si osserverà che questo ordine suppone l’autorità del confessore sulla persona privata, oltre ad una potestà della chiesa nella sfera civile. Ma i limiti dell’efficacia erga omnes delle decisioni della Chiesa in società pluralistiche, non ne invalidano i principi e i criteri permanenti di giudizio; essi restano, anzi, esemplari. Solo il moralismo militante, nuovo potere politico della modernità, può pensare di impedire (se e quando serve) con l’arma del quarto potere l’esercizio della razionalità cattolica. Nello spazio pubblico contemporaneo le richieste alla Chiesa di intervenire con condanne contro qualcuno non solo sono partigiane (l’opinione pubblica attiva è sempre "partito"), ma intendono trascinare la Chiesa ad un giudizio pubblico per obiettivi estranei al senso della sua giurisdizione. Si tenta di imporle un metodo, se di metodo si può parlare, per definizione affrettato e liquidatorio, poiché precede l’accertamento di fatti e delle responsabilità: la ghigliottina politica, contro l’equità e la prudenza secolare che canonisti e teologi, tribunali e confessori, hanno praticato e praticano nel foro esterno come nel foro interno. Si tenta, dunque, di trasformare la Chiesa in uno strumento della mobilitazione dell’intellighenzia ed anzi in una parte dell’intellighenzia stessa. Questo arruolamento nella macchina dell’opinione pubblica è il peggio che possa accadere alle persone e all’istituzione ecclesiastica. Ma è da credere che non accadrà.
Airò: «Ma il fermo richiamo alla sobrietà è sempre attuale»Antonio AiròNell’attività politica c’è una netta distinzione tra le scelte riguardanti l’obiettivo del bene comune nel governo della società, e i comportamenti personali dei leader. Ma questo non significa che i due piani siano indifferenti. Infatti, se non si vuole cadere in un machiavellismo deteriore, occorre una coerenza di fondo tra i fini da raggiungere e i mezzi impiegati per realizzarli. E di questo rapporto è parte importante anche lo stile di vita dei protagonisti della politica. Lo stile – e non sembri inutile ripeterlo anche in una fase di grande personalizzazione come l’attuale – deve essere ispirato a sobrietà e caratterizzato da quella virtù cardinale che è la temperanza. Anche se questa parola è quasi scomparsa dal linguaggio attuale. Di fronte a recenti vicende che hanno infuocato il dibattito nei mass media, dobbiamo registrare una sorta di commistione tra il giudizio, positivo o negativo, sugli impegni programmatici realizzati o in itinere – sui quali sono gli elettori che debbono pronunciarsi nelle più diverse occasioni, elettorali in primo luogo – e le valutazioni su come le persone si sono mosse. C’è il rischio, infatti – si parli di "complotto"’ o di "scosse in arrivo" come si è fatto nei giorni scorsi – di fare entrare nel dibattito politico questioni che attengono i comportamenti dei protagonisti in una sorta di giudizio finale, spesso più moralistico che etico, nel quale a pronunciarsi sul bene o sul male di questi comportamenti dovrebbero essere non solo singoli esponenti, ma anche la Chiesa nella sua espressione più gerarchica. E questa dovrebbe assolvere o condannare quasi a priori. Dire che non è compito della Chiesa svolgere questo ruolo è ovvio e riduttivo insieme. Da un lato si vorrebbe far entrare la Chiesa, con modalità improprie, in un campo che non è il suo. Dall’altro si vorrebbe la Chiesa indifferente di fronte a comportamenti che possono inquietare la comunità cristiana e anche la società civile e possono indurla a chiedersi se non siano stati superati, magari in buona fede, certi limiti. È evidente che la comunità cristiana può e deve interrogarsi al di là di ogni aspetto giuridico. Il buon governo o il cattivo governo possono essere influenzati da percorsi che si svolgono su binari differenti da quelli della politica. Detto questo, forse vale la pena di rilevare come ogni rappresentante della classe dirigente del Paese – ma il discorso vale per ogni cristiano – non dovrebbe mai dimenticare, come recitiamo ogni domenica nella Messa, che si può peccare «in parole, pensieri, opere, omissioni». E questo può avvenire anche quando non si sono commessi reati penali, non si è incappati in disavventure burocratiche o caduti in qualche distrazione di troppo. C’è sempre una responsabilità personale che nessun giudizio della Chiesa può cancellare o enfatizzare. Men che meno propinando condanne. La laicità della politica e la distinzione dei piani escludono qualsiasi intervento in materia. Sta invece alla coscienza dei politici, senza scomodare i sondaggi per assolversi o pronunciare condanne, valutare come rispondere alle inquietudini dei cittadini. E decidere di conseguenza. Forse è questo serio esame di coscienza che è mancato finora, da parte di tutti e a cominciare da chi ha più responsabilità. Si è preferito invece "gettarla" in politica, nei suoi aspetti più deteriori.
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