sabato 18 settembre 2021
L’insidia del male, che si ritrova anche in Thomas Mann, è centrale nell’autore dei “Demoni” Un problema affrontato anche da Pareyson
Vasilij G. Perov, "Ritratto di Dostoevskij", 1872 (Mosca, Galleria Tretj’akov)

Vasilij G. Perov, "Ritratto di Dostoevskij", 1872 (Mosca, Galleria Tretj’akov) - archivio

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Il numero in uscita di “Vita e pensiero”, il bimestrale dell’Università Cattolica coordinato da Roberto Righetto, viene aperto da un editoriale del presidente della Cei Gualtiero Bassetti che prefigura una svolta missionaria per la Chiesa italiana. Lo segue un saggio del filosofo francese Paul Ricoeur, scomparso nel 2005, su una nuova idea di tolleranza. Altri saggi di T. Garton Ash sul futuro del liberalismo e di R. Brague sul potere nell’islam. P.A. Sequeri, E. Salmann e Ch. Theobald ragionano sul bisogno che la teologia ha di una vivida immaginazione. Il filosofo Sergio Givone tratta l’eredità di Dostoevskij a due secoli dalla nascita in un saggio che anticipiamo in alcuni brani.

La presenza di Dostoevskij fra noi – e quindi l’influenza da lui esercitata sulla letteratura e sulla filosofica del Novecento e oltre – non è qualcosa che salta immediatamente agli occhi o si impone in modo inequivocabile; al contrario, si lascia cogliere per via traversa, e come in uno specchio, mai direttamente, ma sempre mediata da altri interpreti e altri autori. Quali autori? Uno in particolare, vero pa- dre nobile di gran parte della cultura letteraria e filosofica di oggi, il più discusso, il più citato, il più amato e il più detestato di tutti: Friedrich Nietzsche. A pieno titolo nietzschiani sono numerosi personaggi che, usciti dalla penna di Dostoevskij, affollano il nostro immaginario. Lo è per esempio in Delitto e castigo Raskol’nikov, lo studente ossessionato dall’idea dell’uomo superiore o del superuomo, che in nome di questa idea pretende di giustificare un crimine abietto ponendosi al di là del bene e del male. Così come lo è nei Demoni Kirillov, ingegnere con la fissazione del libero arbitrio, il quale è convinto che chi fosse in grado di compiere un gesto assolutamente gratuito, e quindi assolutamente libero, per esempio suicidarsi senza alcun motivo per farlo, si ritroverebbe ipso facto a essere Dio. E lo è, sempre nei Demoni, il principe Stavroghin, spirito eletto e animo depravato, fautore di una filosofia sperimentale che consiste nel professare o nell’indurre altri a professare le teorie più disparate come chi pensa abbandonandosi al gusto dell’invenzione invece che della scoperta, dopo aver tolto di mezzo come superata la nozione stessa di verità. Non sarà però Dostoevskij a riconoscere come nietzschiani quei personaggi. Né lo poteva. Dostoevskij muore nel 1881, quando la fama europea di Nietzsche era ancora lungi dal conquistare l’intero continente, come sarebbe accaduto solamente vent’anni più tardi. Invece Nietzsche leggerà Dostoevskij nell’inverno fra l’84 e l’85 in traduzione francese e sarà una specie di folgorazione. Di essa c’è traccia in alcune note febbrili da lui lasciate in margine ai Demoni e a Delitto e castigo: dove Nietzsche non esita a parlare di Dostoevskij come di un suo «fratello di sangue». Ma che cosa vide propriamente Nietzsche in figure nelle quali credette di rispecchiarsi? E che cosa non vide? Non vide che in Raskol’nikov, non meno che in Kirillov o in Stavroghin, Dostoevskij faceva balenare una grande idea, ma al tempo stesso ne mostrava criticamente il risvolto negativo e la smascherava. Così nel superuomo metteva in luce come la pretesa di porsi al di là del bene e del male precipiti nel male. Proprio come la filosofia senza verità diventa inganno e menzogna. E l’eternità sposata alla disperazione altro non è che l’inferno. Alla pari di queste, anche altre figure dostoevskiane daranno da pensare e saranno fonte di ispirazione lungo tutto il secolo. Una in particolare, che Dostoevskij lascerà senza nome. E sarà, semplicemente, l’uomo del sottosuolo. Tutti i grandi personaggi di Dostoevskij in un modo o nell’altro rappresentano costui, perché tutti vengono da lì: dal sottosuolo. Dove l’uomo fa un’esperienza atroce: vive la propria disumanizzazione come se fosse una cosa perfettamente normale. Tanto da ritrovarsi trasformato in un insetto, per la precisione in uno scarafaggio – come racconterà Kafka, il quale non esiterà a dichiarare il suo debito nei confronti di Dostoevskij – senza che nessuno, né lui né quelli che gli stanno intorno, trovi in ciò un solo motivo di scandalo. Sono molti i casi di diretta filiazione dostoevskiana nella letteratura del Novecento. Memorabile nel Doktor Faustus di Thomas Mann l’entrata in scena del demonio come incarnazione della banalità del male. Fin nei minimi dettagli il demonio che appare ad Adrian Leverkühn è precisamente quello che appare a Ivan Karamazov: un ruffiano da quattro soldi, che indossa biancheria sporchiccia, un tipo untuoso e apparentemente inoffensivo, un gaglioffo indegno di attenzione. Capace però – questo essere ripugnante eppure seducente, in cui il male implode anziché esplodere – di portare a un punto di massima criticità l’idea di una giustificazione divina dell’opera della creazione. Thomas Mann sembra volersi limitare a un vero e proprio calco di Dostoevskij, senza aggiungere niente di suo, contentandosi di spostare il piano del discorso dall’etica (dove lo colloca quel paradossale moralista di Ivan Karamazov) all’estetica (che è quello del compositore Leverkühn). Ma è impressionante notare come ne sappia trarre un’immagine del tutto nuova. Quanto più grande la fedeltà al modello, tanto più indiscutibile l’originalità del risultato. Ciò non toglie che Dostoevskij nel Novecento abbia potuto rappresentare, per alcuni, un paradigma negativo, quasi un cattivo maestro, o comunque un maestro da non seguire. Se c’è stato, nella cultura novecentesca, un filone dostoevskiano, c’è stato anche un filone anti-dostoevskiano. A capo del quale va messo Vladimir Nabokov. Con un’acredine e un’animosità degne di miglior causa, ma in ogni caso assai efficaci da un punto di vista polemico, Nabokov taccia Dostoevskij di «isterismo letterario» e di «terrorismo spirituale». Gli attribuisce un idioletto, uno slang tanto artificioso quanto equivoco, in funzione di guastatore della sfera mentale, che farebbe di lui un «fomentatore psichico», un provocatore filosofico, se non uno a sua volta disturbato. Evoca quella cosiddetta «dostoevskiaggine » di cui da anni ormai si parlava in Unione Sovietica come di un marchio d’infamia o quasi. Era stato Nikolaj Konstantinovic Michajlovskij, con un articolo scritto prima della morte di Dostoevskij ma pubblicato solo successivamente, Un talento crudele, a porre l’accento sui tratti sadici di un’arte a suo modo di vedere difettosa, per non dire malata. A dimostrazione di questo assunto, il noto critico evocava la concezione dostoevskiana della sofferenza: sofferenza compiaciuta, bloccata, irredimibile, vera e propria passione triste. Arte senza catarsi, quella di Dostoevskij, che aveva secondo lui più del patologico che dell’estetico. A Michajlovskij risponderà Lev Šestov. E lo farà dandogli a suo modo ragione, ma obiettandogli di non aver capito nulla di Dostoevskij. La sofferenza in Dostoevskij è bensì smisurata, eccessiva e soprattutto di una crudeltà spaventosa; ma lo è in quanto principio e motore di una nuova filosofia, cioè una filosofia che rompe con gli assetti della filosofia tradizionale, interamente volta a riconciliare l’uomo con la realtà, e che diventa filosofia della tragedia, filosofia della contraddizione e non della soluzione dei conflitti, filosofia irriducibilmente antinomica, filosofia del due e non dell’uno. Anche Nikolaj Berdjaev vedrà nel pensiero dostoevskiano un nuovo inizio. Con lui si profila all’orizzonte una filosofia che non s’era ancora mai vista: filosofia della libertà versus filosofia della necessità. A liberare la filosofia dalla stretta della necessità, di cui era rimasta prigioniera in forza del principio d’identità e di non contraddizione, secondo Berdjaev, altri non è stato che Dostoevskij. Viene così a tracciarsi un solco entro il quale si è dipanato quel-l’altro filone di cui si diceva – filone a pieno titolo dostoevskiano. Vi ha trovato collocazione il pensiero di uno dei maggiori filosofi del secondo Novecento, Luigi Pareyson. Il quale ha proposto una lettura filosofica di Dostoevskij memore dell’una e dell’altra lezione – sia quella di Šestov sia quella di Berdjaev – e non a caso ha intitolato il suo pensiero al «pensiero tragico» (di ascendenza šestoviana) e alla «ontologia della libertà» (di derivazione berdjaeviana).

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