Giorgio La Pira, Aldo Moro e Giuseppe Dossetti a Montecitorio (Archivio Alinari)
Tra le molteplici testimonianze che si potrebbero rievocare sull’impressione, corale e personale allo stesso tempo, suscitata dal ritrovamento del corpo martoriato di Aldo Moro quel lontano 9 maggio di quarant’anni fa in via Caetani, vale la pena, oggi, recuperare un’omelia che don Giuseppe Dossetti tenne alla sua Comunità monastica, la Piccola Famiglia dell’Annunziata, nella Domenica di Pentecoste a Monteveglio il 14 maggio 1978. Si tratta di un documento tanto prezioso quanto poco noto in grado di aiutare chi desidera accostarsi a quella morte con umile rispetto, con sguardo di fede e con libera attitudine riflessiva, a interrogarsi, nelle profondità del proprio cuore, sul significato e sul mistero che quella fine recava con sé. In questo scrutinio veniamo soccorsi dalla sapienziale e rara capacità, tutta spirituale, che don Giuseppe Dossetti possedeva in sommo grado, di leggere ogni avvenimento, gesto, parola, alla luce della Parola del Vangelo e di inserirli nel fluire sacro dei misteri liturgici. Dossetti era stato amico di Moro. Come lo era stato di La Pira. Tre amici uniti dalla passione politica – pur con le prevedibili divergenze di pensiero e di azione – ma ancor di più uniti e sorretti da una comune aspirazione a vivere integralmente, senza compromessi, la vocazione cristiana laddove la Provvidenza li avrebbe guidati e collocati.
Della santità di Giorgio la Pira, don Giuseppe era stato tra i testimoni più importanti quando venne chiamato a deporre nell’ambito dell’inchiesta diocesana aperta a Firenze per la beatificazione del «sindaco santo»; l’aveva commemorato in Palazzo Vecchio a dieci anni dalla scomparsa il 5 novembre 1987 e nel 1992 ne aveva esaltato la cospicua eredità firmando una densa Prefazione alla raccolta degli scritti pubblicati da La Pira su Il Focolare dal 1948 al 1977. È nota la diversità di vedute tra Moro e La Pira e le critiche che questo espresse – a volte con parole ed espressioni cariche dell’emozione del momento – per lettera al primo. Ma tutto ciò restando sempre e solo nell’agone del confronto politico e mai inquinando o raffreddando la stima e l’affetto reciproco. Lo testimonia lo statista pugliese quando, in una delle ultime lettere indirizzate alla moglie Eleonora durante la prigionia, esprime la sua personale opinione sulla santità di La Pira: «Mia dolcissima Noretta, credo di esser giunto all’estremo delle mie possibilità e di esser sul punto, salvo un miracolo, di chiudere questa mia esperienza umana […] Ho tentato tutto ed ora sia fatta la volontà di Dio. [...] State più uniti che potete e tenete uniti anche perché sarò così con voi, perché sono vostro. Ho pregato molto La Pira. Spero che mi aiuti in altro modo».
Su Aldo Moro non abbiamo altre testimonianze scritte di Dossetti se non l’omelia pentecostale del maggio 1978, editata successivamente nella raccolta Le omelie del tempo di Pasqua, a cura della Piccola Famiglia dell’Annunziata (Paoline). Luigi Giorgi in un suo articolo apparso nel 2008 sulla rivista Il Margine(“ Dossetti e il rapimento di Aldo Moro”, a cui rimando per un’informazione dettagliata e informata) annota come il monaco bolognese si fosse adoperato, in modo ufficioso, durante i giorni della prigionia per la liberazione di Moro. Precedentemente, aveva più volte fatto allusione al rapimento dello statista invitando i fratelli e le sorelle della sua comunità a «non lascarsi di- strarre da nulla» bensì ad aggrapparsi «in modo eminente, veramente dominante alla parola del Signore» e «all’esperienza dell’itinerario concreto che, giorno per giorno, ci viene proposto attraverso le celebrazioni del mistero pasquale » (cfr. Omelia del 27 marzo). Ritorna, come ispirato, a parlarne il giorno di Pentecoste, nel corso della celebrazione dell’Eucarestia. Moro era stato ritrovato pochi giorni prima. Dopo aver condiviso la meditazione sulle letture bibliche previste dalla liturgia del giorno, apre una pensosa e illuminate riflessione sulla vicenda della cattura e della morte di Aldo Moro, una vicenda che si deve inscrivere «in modo molto rigoroso in un ambito, in un andamento, per così dire liturgico».
Le prime parole mettono in luce come il rapimento dello statista sia avvenuto a ridosso della Settimana Santa «inizio della Passione del Signore », per cui la croce si rivela e si propone come «l’unica chiave capace di dare un senso agli eventi e riscattarli da una situazione di soggezione al male». La prigionia di Moro, ricorda Dossetti, coincide con la Settimana di Passione e con tutto il tempo pasquale fino all’Ascensione di Gesù: «meno di quarantotto ore dopo che noi avevamo celebrato il mistero dell’Ascensione egli è stato chiamato a comparire dinanzi al Signore». La riflessione dossettiana coglie con spirituale vigore un aspetto imprescindibile della nostra esistenza: «Ogni vicenda di un uomo, tanto più ogni vicenda di battezzato, e ogni vicenda della comunità cristiana e dell’umanità intera si iscrive liturgicamente nei misteri di Cristo». Il cristiano «avendo percepito in qualche modo i misteri di Dio e del Cristo» è chiamato per vocazione e per il dono dello Spirito Santo a «cogliere sempre l’umana vicenda come icona del mistero di Cristo e dei misteri supremi della passione della croce della morte della resurrezione della glorificazione e dell’effusione dello spirito».
Più avanti la riflessione, e le parole che la dicono, sembra assumere nell’andamento della meditazione una tonalità quasi profetica: siamo davanti al tentativo che Dossetti compie nel contesto liturgico eucaristico di scorgere in quell’evento tragico lo stigma della santità. Ma prima di procedere, con pudore e umiltà, confessa che non vuole «mettere un timbro sulla conclusione di un’esistenza quanto piuttosto fornire un punto di riferimento, una chiave generale di interpretazione che si può forse applicare anche a questo caso cioè alla morte di Moro e che comunque può dare a noi una ragione di conforto». Dossetti ricorda come nei giorni della cattura dello statista, la comunità dei fratelli era in ritiro e a tavola durante il pasto, secondo il costume monastico, si leggeva un libro sulla spiritualità e sulla santità russa (cfr. I. Kologrivof, Saggio sulla santità in Russia). In questo libro si narra – tra le tante – la vicenda dei primi due santi della Russia, i santi principi e protomartiri Boris e Gleb, da poco convertiti al cristianesimo (ricordiamo che la Russia aveva ricevuto l’annuncio del cristianesimo nel 10º secolo).
Il profilo cristiano di questi due principi mostra, secondo Dossetti, un particolare parametro della santità russa, quella dei cosiddetti strastoterpzi, (alla lettera: i portatori della Passione), ovvero di coloro che hanno sofferto la passione e che Dossetti distingue dai martiri, rilevando come non bisogna confondere il martirio con questo tipo di santità cristomimetica. Mentre il martirio, infatti, dice la testimonianza della fede sino alla morte subita per il nome di Cristo, la santità dei strastoterpzi rimanda a una morte che viene patita e ricevuta in modo assolutamente ingiusto, o come dice Dossetti, una morte «non in connessione con una particolare formalità della professione di fede, ma ricevuta e a un certo momento, in Cristo, accettata». Boris e Gleb vennero uccisi dal terzo fratello perché costui ambiva al possesso, personale e unico, del potere: non si tratta dunque di una morte inflitta ai due in odium fidei, perché il suo scopo era quello di sostituirli nella guida dello Stato e per questo li fa uccidere. Non si trattò di un’uccisione immediata, quanto piuttosto di una passio, se pur breve, una tortura quasi che si prolunga nella notte della prigionia: Boris all’inizio prega il fratello e i suoi sicari di liberarlo, denuncia tutta la propria sofferenza, il proprio dolore, grida la paura di morire giovane, nel rigoglio delle forze, implora, piange, ma, alla fine, i due fratelli vengono uccisi.
Qui, riflette Dossetti, non c’è la fede di mezzo, i due non muoiono perché perseguitati per la propria religione; ma c’è una morte ingiusta, e c’è pure una morte accettata. Ma anche questa morte, anche questa storia, racchiude in sé una bellezza tutta cristiana e «una consolazione per tutti noi». Spiega Dossetti: la Pentecoste è il dono dello Spirito Santo che viene dato a ciascun battezzato e che porta ad accettare non solo «le piccole morti di ogni momento» ma anche «la grande morte che verrà a un certo punto in cui non vorremmo, nel punto in cui diremo a Dio e agli uomini: ma ho ancora una cosa importantissima da fare, sono ancora necessario a questo o a quello; quindi ti supplico Dio, rinvia!». Eppure, il dono dello Spirito Santo porterà, «anche solo nel silenzio dell’anima», a dire al Padre «sia fatta la tua volontà». Questo, dice Dossetti, è Pentecoste. È perché Boris e Gleb vedono nella loro «passione» l’orma e il riflesso di quella di Gesù Cristo che l’accettano con gratitudine e con il desiderio di conformarsi al Suo esempio e di assomigliarGli spiritualmente.
È questo che ispira le loro parole i loro gesti. Essi si sentono come «agnelli portati al macello», innocenti senza macchia che non resistono ai loro uccisori e perdonano coloro che li perseguitano e li colpiscono. Il richiamo fatto da don Giuseppe Dossetti ai due protomartiri del cristianesimo russo diventa così una preziosa chiave di lettura grazie alla quale possiamo approssimarci al mistero racchiuso nella vicenda della morte di Aldo Moro. Ma, soprattutto, l’ammirazione della loro santità può spronarci, oggi, finalmente, dopo tanti anni di indagini, libri, inchieste, strumentalizzazioni, letture bugiarde o fuorvianti della sua vita e della sua morte, a poter intravvedere nella vita e la morte di «Aldo Moro, uomo buono, mite, saggio, innocente ed amico» (Paolo VI), così come in tutte le esperienze umane di sofferenza, di solitudine e derelizione, un riflesso del Cristo che ha patito ed è risorto nella gloria del Padre.