domenica 6 marzo 2011
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Lottano per i loro diritti, da un capo all’altro del mondo. Per poter accedere a tutte le professioni e alle più alte cariche politiche. Perché le tradizioni di società patriarcali non siano più proclamate 'leggi divine'. Per poter scegliere di girare a capo scoperto, ma anche di indossare il velo senza essere discriminate. Non sono femministe anti-islam: sono, al contrario, femministe nel nome dell’islam. Molte di loro, in queste settimane, stanno sostenendo le rivendicazioni di democrazia e giustizia sociale che stanno infiammando l’intero Medio Oriente. Solo pochi giorni fa Faezeh Hashemi Rafsanjani, figlia dell’ex presidente iraniano e nota attivista, è stata arrestata (e poi rilasciata) per aver partecipato a una manifestazione di piazza contro la dittatura di Ahmadinejad. Le battaglie di queste donne hanno una forte valenza di rinnovamento sociale, perché sono basate sulla convinzione, ben sintetizzata dall’esegeta marocchina Asma Lamrabet, che l’islam sia «portatore di un messaggio profondamente emancipatorio». La Lamrabet è una delle esponenti di punta di una nuova generazione di attiviste che sta emergendo in gran parte dei Paesi a maggioranza islamica – dall’Iran al Marocco, dalla Turchia all’Indonesia – ma anche in tutto l’Occidente, a cominciare dagli Stati Uniti fino al Vecchio continente. Di estrazione sociale e appartenenza culturale spesso molto diverse, queste donne sono accomunate da una missione: modernizzare le proprie società attraverso una rilettura, dall’interno, della religione musulmana. La quale, ben lungi dall’essere maschilista in sé, sarebbe invece stata manipolata per secoli, in funzione della sottomissione femminile, dai detentori del potere politico e religioso. Al centro delle accuse tutte le autorità – sceicchi, ayatollah, muftì – che fin dagli albori della nuova religione si sono arrogati, di volta in volta, l’esclusiva dell’interpretazione dei testi sacri, dal Corano agli hadith: detti e aneddoti attribuiti al profeta Maometto, per molti dei quali l’autenticità è messa in discussione all’interno dello stesso mondo islamico. Non a caso, il primo diritto rivendicato da quelle che sono state definite 'femministe islamiche' è proprio legato all’ijtihad, ossia l’indagine individuale dei sacri testi, da cui origina anche il diritto. Queste neo-esegete del Corano, modernizzatrici che assumono l’islam quale fonte di legittimazione, sono le protagoniste di Le donne di Allah (Bruno Mondadori, pagine 178, euro 20,00), interessante ultimo libro dell’islamologa e iranologa Anna Vanzan, docente alla Iulm di Milano e all’Università di Pavia. E proprio dall’Iran provengono alcune delle esponenti più rilevanti dei 'femminismi islamici' (una categoria usata per comodità, della quale tuttavia non tutte le interessate riconoscono l’opportunità): è nell’area sciita, infatti, che, a differenza di ciò che è avvenuto nel mondo sunnita, si è sviluppata una tradizione di ijtihad, quanto meno teorica. «Credo nell’interpretazione diacronica del Corano», spiega nel libro di Vanzan l’esperta di esegetica coranica Nahid Tavassoli, per anni direttrice della rivista femminista 'Nafeh'. Tale interpretazione – continua la Tavassoli – «deve essere esercitata ogni giorno, ogni momento della vita, in modo da rapportare i versi alla situazione, al momento temporale, alla localizzazione geografica, alle tradizioni e agli usi e costumi vigenti». Parole per molti versi decisamente rivoluzionarie, che potrebbero stupire in bocca ad attiviste che si richiamano a un contesto esplicitamente religioso. Ma le riformatrici islamiche sono interessate non tanto a un modernismo di forma, esteriore, bensì di sostanza. «La forza di questo movimento sta proprio nello scardinare molti luoghi comuni legati ai temi di genere nel mondo islamico. A cominciare – e non poteva essere altrimenti – dall’annosa questione del velo. Nel volume, la superficialità e la pretestuosità del dibattito generale sull’argomento emergono in modo emblematico dal racconto parallelo di due battaglie contro le discriminazioni legate all’abbigliamento, in contesti geografici e giuridici differenti: l’Iran e la Turchia. Se per le donne persiane l’obbligo dell’hijab si configura infatti come uno strumento teso a «escludere la partecipazione femminile alla vita pubblica», per le studentesse turche il bando antivelo nelle università, eredità del laicismo kemalista, appare ugualmente discriminatorio, visto che «molte studentesse hanno dovuto abbandonare gli studi o andare all’estero», come spiega l’attivista turca Neslihan Akbulut. La panoramica globale offerta da Anna Vanzan permette di cogliere la dimensione transnazionale dei femminismi islamici, altro elemento di novità di questi movimenti che, anche grazie all’aiuto del web, si configurano come affrancati dalla prospettiva etno-linguistica che vedeva il mondo arabo come l’unico in cui potesse emergere una riflessione autorevole sull’islam. La democraticità delle nuove reti femminili islamiche diventa così un possibile esempio «applicabile a tutti i gruppi sociali che rivendicano il proprio diritto di vivere in un islam democratico e pluralistico». E la volontà di mediazione tra fede e modernità, un atteggiamento per il quale in passato le femministe religiose sono state criticate dalle attiviste laiche, assume oggi un valore fondamentale nella misura in cui si traduce nell’abilità di porsi come ponte tra Oriente e Occidente. Queste donne, con il loro approccio ideale e insieme pragmatico, offrono una via possibile di modernizzazione che non si arrende allo scontro tra le civiltà.
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