mercoledì 5 settembre 2018
Alla Biennale si assiste a numerosi dibattiti sulle questioni femminili e a film coraggiosi come "Acusada" e "Dead woman walking" sulla violenza e "Joy" sulla tratta sessuale delle africane in Europa
Venezia si schiera dalla parte delle donne
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È l’anno delle donne, a Venezia, e del loro no a ogni forma di violenza e discriminazione. Ma non è solo l’attivismo battagliero del #metoo, bensì la capacità del cinema di raccontare anche le storie di tante donne che nel mondo non hanno voce. Da una parte, quindi, ci sono gli atti ufficiali, a partire dalla firma della “Carta per la parità” e l’inclusione da parte del presidente della Mostra del cinema, Paolo Baratta, dal direttore, Alberto Barbera, e dei direttori delle Giornate degli autori e della Settimana della critica, Giorgio Gosetti e Giona A. Nazzaro, plaudito dalla neonata “Women in film, television & media Italia” che si è presentata al Lido. E ci sono i convegni dedicati alla parità delle donne nel mondo del lavoro, come il forum in due parti “About women” organizzato dalla Fondazione Ente dello spettacolo e condotto da Tiziana Ferrario che oggi avrà come ospiti, fra le altre, la regista Liliana Cavani, le senatrici Daniela Santanché e Roberta Pinotti e Antonella Sciarrone Alibrandi, docente della Cattolica. Bene ha detto la regista Costanza Quatriglio, ospite nella prima parte: «Una volta un bambino mi ha detto di non aver mai visto un regista femmina. Fare la regista è un atto di coraggio. Io l’ho fatto con un po’ di incoscienza. Questo è un mestiere che si fa in condivisione, ci va coraggio. Troppe volte questa professione viene delegittimata».

Dall’altra ci sono i film che raccontano la violenza sulle donne. Che può essere quella del circo mediatico in cui finisce Dolores, la protagonista di Acusada, in concorso, in cui il regista argentino Gonzalo Tobal vuole analizzare l’aspetto umano di chi diventa un 'caso' per la tv del crimine. Dolores è una ragazza di buona famiglia, che viene accusata di avere ucciso la sua migliore amica, brutalmente accoltellata dopo una notte di sballo. «Non avete mai pensato che la vittima avrei potuto essere io?», dice in diretta tv lasciando intravedere scenari inquietanti. Assassine vere sono invece le protagoniste di Dead woman walking (“Morte che camminano”) della regista israeliana Hgar Ben-Hasher, bellissimo film che tocca il cuore nel profondo raccontando la storia di nove condannate a morte nel loro aspetto umano. Passato al Tribeca Festival di New York, e qui alle Giornate degli autori, è la ricostruzione filmica puntuale e umanissima delle nove tappe che portano all’esecuzione nel braccio della morte in America: l’ultima visita dei parenti, l’incontro con l’assistente spirituale, l’ultimo pasto, l’ultima doccia sino al momento terribile della iniezione letale.

Una Via Dolorosa sia per le condannate sia per chi ha deciso di passare le ultime ore con loro. C’è la donna di colore dalla mente semplice che, a 25 ore dall’esecuzione, incontra per la prima volta il figlio 18enne da quando è nato in carcere per lasciargli le sue lettere, la suora sconvolta dalla disperazione della propria assistita, una ragazza bianca drogata e debole; un’altra che a un’ora dall’esecuzione commuove la poliziotta che la accompagna raccontandole le violenze sessuali subite dal padre e dal nonno; i parenti della vittima e dell’assassina che abbandonano l’odio dietro al vetro da cui assistono all’atrocità dell’esecuzione. Il film esamina in modo toccante come la violenza contro le donne, la povertà, le tensioni razziali e le ingiustizie abbiano contribuito a portare queste donne a diventare delle omicide, come sottolinea la regista citando le statistiche che dicono che l’88% delle donne detenute ha subito in passato violenza sessuale o altri terribili abusi.

Abusi che sono il pane quotidiano di Joy, una giovane nigeriana caduta nella rete della tratta sessuale. Il film austriaco Joy di Sudabeh Mortezai, alle Giornate degli autori, racconta la durezza della vita di strada che affronta a Vienna per pagare il debito dei suoi sfruttatori e per sostenere la sua famiglia in Nigeria, sperando che sua figlia possa avere una vita migliore. Le cose cambiano quando e incaricata di tenere d’occhio Precious, una ragazza appena arrivata che non si rassegna al suo destino. «Volevo mostrare i momenti privati, le lotte quotidiane, la forza e la dignità di queste donne straniere che vivono nelle strade e nei quartieri a luci rosse d’Europa» dice il regista.

Dall’altra parte della barricata ci sono, poi, le poliziotte di Nuova Delhi, protagoniste di Soni del regista indiano Ivan Ayr, oggi in concorso a “Orizzonti”. Soni, una giovane poliziotta, e la sua sovrintendente, Kalpana, uniscono le forze per occuparsi del crescente aumento dei crimini sulle donne a Nuova Delhi. La loro alleanza subisce un duro colpo quando Soni viene trasferita per cattiva condotta. «Alcuni eventi della storia sono stati tratti dalle esperienze di vita reale delle poliziotte di Delhi . Mi sono domandato cosa potessero provare queste poliziotte di fronte al crescere della violenza sulle donne – dice il regista Ayr –. Era mio intento che il loro lavoro fosse riconosciuto dallo spettatore per quello che è: assolutamente poco appariscente, impegnativo, e irrimediabilmente frustrante ». L’Italia fa la sua parte in questo discorso con la versione per la tv di L’amica geniale, dai best seller di Elena Ferrante, quattro puntate dirette con tocco poetico e dolente da Saverio Costanzo per Hbo, Rai Cinema e Tim Vision in onda a novembre su Rai 1 e sulla piattaforma web. Tratti dal primo romanzo della Ferrante, L’amica geniale, attraverso gli occhi grandi di due bambine che hanno visto già troppe violenze e discriminazioni in un quartiere alla periferia di Napoli, racconta la loro voglia di emanciparsi attraverso lo studio, nonostante i pregiudizi della mentalità del-l’Italia anni 50.

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