sabato 10 gennaio 2015
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Milano, inverno 1954, via Brera: ai tavoli del bar Jamaica Ugo e Mario brindano all’amicizia e alla giovinezza con l’amico Luciano. Poi si alzano e lo lasciano al tavolo a finire i suoi scritti “anarchici”, che un decennio dopo lo consacreranno principe dei narratori irregolari: Luciano Bianciardi, autore del romanzo del boom, La vita agra. Loro invece, Ugo Mulas e Mario Dondero («Eravamo come fratelli»), con due macchine fotografiche («Imprestate da chissà chi»), fuggono in una Venezia nebbiosa, gelida, in cui si sono dati appuntamento Luchino Visconti e Marcel Carné e dove hanno proiettato da poco La finestra sul cortile di Alfred Hitchcock. È iniziata così la straordinaria avventura fotogiornalistica dell’ottantaseienne Mario Dondero che, mentre Roma lo celebra con due mostre antologiche, non è affatto stanco di consumare scarpe e rullini. Perché dice: «Sono ancora interessato a tutto ciò che passa e accade su questa terra. Se si osserva bene, ovunque c’è un angolo interessante, come repellente, comunque degno di uno scatto». Il suo è Lo scatto umano – titolo omonimo dell’ultimo libro, scritto con Emanuele Giordanan e edito da Laterza (pagine 158, euro 18,00) –. Arriva con un treno da Fermo all’appuntamento al buio con l’aria di chi si aggira per il mondo sempre un po’ per caso (con una Nikon a tracolla e una Leica in mano «o viceversa, dipende dai giorni ») e la chiacchierata possiamo farla tranquillamente seduti davanti a un bagno pubblico di Mantova. «Tanto segreti non ne ho. Parlo in bianco e nero, fotografando sempre secondo la mia idea socialista del mondo. Il mio sguardo aspira alla ricerca della verità, ma senza mai rinunciare a cogliere quella porzione di fantastico che possiede l’umanità». Quindi sarà d’accordo con Mark Twain quando dice: «La verità, spesso, è più eccentrica della fantasia»… «Io credo che la storia va raccontata anche nelle pagine scure, oltre a quelle gloriose. Il miglior esempio che mi viene in mente è il Museo di Caporetto: adesso si chiama Kobarid, in sloveno, e non è né austriaco né italiano, quindi un modo per spiegarci cosa sia stata la guerra mondiale, osservando dalla “giusta distanza”. Questa per me è garanzia di maggiore obiettività e quindi la possibilità di avvicinarci il più possibile alla verità storica». Il suo amico, il critico e saggista Massimo Raffaeli, ha scritto: «Chi abbia avuto la fortuna di incontrare Mario Dondero sa esattamente quale sia il significato della parola “humanitas”»... «Guardi qua – e apre il suo libro – rispondo scrivendo: “Non è che a me le persone interessino per fotografarle, mi interessano perché esistono”. La conoscenza dell’umanità, nella sua varietà, è stata ed è la molla per continuare a fare questo mestiere». Un’umanità in crisi valoriale, quindi sempre più difficile da “inquadrare”? «Sono un uomo fortunato, mi capita ancora di fare degli incontri stimolanti, con gente generosa. Forse la genuinità si è un po’ degradata dietro l’espressione cretina di “buonismo”. Ma dobbiamo insistere e lottare per la solidarietà, è l’unica ancora di salvataggio in una società fortemente minata dalle disuguaglianze sociali». È un approccio spirituale, possiamo parlare di un Dondero fotogiornalista cristiano? «Se per cristiano si intende aver fatto dei reportage per riviste cattoliche, tipo “Famiglia Cristiana”, allora sì – sorride –. Io ho una visione materialista dell’esistenza, ma nell’universo religioso ho avuto modo di apprezzare grandi figure dotate di una straordinaria spiritualità, come il teologo Paul Gauthier. Ho letto in edizione francese i suoi libri illuminanti, I poveri, Gesù e la Chiesa e Vangelo di giustizia e ne ho apprezzato l’impegno in Israele e Giordania, dove operava come mediatore di pace tra le due popolazioni. Ma sono stati incontri molto toccanti anche quelli che ebbi con don Lorenzo Milani e padre David Maria Turoldo ». Tutti pezzi unici del suo sterminato archivio fotografico, ma anche personaggi raccontati in pagina, perché c’è stato anche un Dondero giornalista. «Io non ho mai smesso di scrivere e lo faccio ancora su argomenti accattivanti, specie se richiedono uno spirito “missionario”. La verità è che a un certo punto ho capito che per me era più confortante e sicuro scattare foto piuttosto che scrivere articoli. Le fotografie possono andare ovunque e parlano da sole, mentre gli scritti, specie se incolonnati su un giornale, hanno senso solo se vanno a sgorgare nella giusta “fonte”…». Filosofia del fotografo che ama condividere i suoi reportage con gli inviati speciali dei giornali. «Ho apprezzato molto l’intenso percorso giornalistico seguito da Ryszard Kapuscinski, uno che diceva: “Il mondo ci insegna ad essere umili”. Tra i tanti inviati con cui ho lavorato ammiro moltissimo Bernardo Valli [autore del recente La verità del momento, ndr], giornalista esemplare e grande amico. Alla sua età, matura, è quasi mio coetaneo – sorride divertito – è incredibile la passione che ancora lo porta a spingersi su quei fronti di guerra dove non va più quasi nessuno». Una spinta che vi accomuna. Come descriverebbe a un giovane d’oggi le tante guerre che ha visto da dietro la sua macchina fotografica? «C’è una differenza sostanziale tra le guerre a cui ho assistito e fotografato e la “Guerra” vissuta emotivamente sulla mia pelle facendo la Resistenza, giovane partigiano in Val d’Ossola… Molte delle guerre sono incomprensibili nella finalità e impossibili da spiegare, specie ai nostri giovani, che per fortuna non le hanno mai neppure sfiorate». L’orrore della morte su un campo di battaglia invece l’ha sfiorata in varie circostanze. «Paradossalmente la prima volta che ho visto la morte in faccia è stato qui da noi. Durante gli scontri di piazza alla vigilia del movimento sessantottino, le cariche del battaglione Padova: i celerini mi picchiarono così forte da rompermi due costole, ma poteva andare peggio. Così come sarebbe potuta finire in tragedia in Guinea, quando con dei colleghi ci scambiarono per degli infiltrati portoghesi. Per fortuna che giorni prima eravamo stati assieme a dei partigiani di quel Paese che ricordandosi di noi ci salvarono da una condanna a morte sicura». A Parigi nel 1959 è diventato celebre con questa foto – gliela mostriamo –: gli scrittori del Nouveau Roman a Saint-Germain davanti alle Éditions de Minuit. «Lo considero un dono del grande editore Jérôme Lindon, quella foto l’ho fatta grazie a lui. Vede – indica uno a uno – Robbe-Grillet, Simon, Mauriac, Lindon, Pinget, Beckett, la Sarraute, Ollier: prima che grandi intellettuali queste erano persone dotate di grande umanità. All’appello in quello scatto ne mancano due: Michel Butor, che stava arrivando in taxi e non fece in tempo, e Marguerite Duras, che invece non voleva essere fotografata per due ragioni: stava cambiando editore e da giovane era stata talmente bella che non sopportava di vedere le “offese” del tempo». In questi sessant’anni, tra una foto a George Best, a Picasso o Paolo Conte, quali giudica i suoi scatti memorabili? «Queste – e qui riapre il libro –: Atene 3 novembre 1968, il processo ad Alekos Panagulis che i colonnelli condannarono a morte per due volte nello stesso giorno. Qui c’è tutta la banalità del male… E poi questi algerini fatti prigionieri dall’esercito del Marocco dopo la battaglia di Hassi Beïda. Nei loro volti rimarrà per sempre la disperazione dell’uomo dinanzi alla follia della guerra». C’è una foto che non ha fatto e che magari vorrebbe tanto si ripresentasse l’occasione per scattarla? «Scatti ormai impossibili. Penso allo storico Fernand Braudel: la mia defunta consorte era stata sua assistente e trovavo indelicato fotografarlo, lo avrei fatto solo se me lo avesse chiesto. Così è andata anche con quel genio di Henri Cartier-Bresson, l’ho incontrato diverse volte e avrei potuto, ma sapevo che ci teneva a restare anonimo per continuare a fare indisturbatamente il suo lavoro per le vie di Parigi. Il mio scatto se è rimasto umano è anche perché prima di cliccare ho sempre chiesto: “Permesso”».

PARIGI 1959. Gli scrittori del Nouveau Roman, tra le foto più celebri di Mario Dondero, davanti alle Éditions de Minuit Mario Dondero nello studio Leemage nel 2004 (©Bianchetti/Leemage)

 

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