mercoledì 1 dicembre 2010
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Nota sin qui in forma frammentaria – anche in molti punti "nevralgici" affrontati in altri carteggi e nelle biografie di Romana Guarnieri, Luisa Mangoni, Giovanni Antonazzi – la corrispondenza fra Benedetto Croce e don Giuseppe De Luca appare finalmente nella sua completezza: e non è poco, se a lettura ultimata, ci si accorge che, oltre l’autorappresentazione di certi ruoli o il leit motiv degli studi eruditi, la distanza fra i due interlocutori resta ineludibile, a prescindere dal condizionamento dei contesti e dalla rimozione dei dissensi. Da un parte il noto prete romano qui interfaccia tra Croce e l’anticrocianesimo, accusato dagli amici come Papini di trescare con i nemici del Trascendente, ma anche lo studioso che vede sempre più la forza della pietà negli scritti sacri e profani (persino nei ricordi su Lenin della Krupskaia). Dall’altra l’alfiere del liberalismo come concezione di vita, il filosofo della libertà, lo storico che fece del «seno della storia» un surrogato del «seno di Abramo», il critico, il laico con il suo breviario di estetica. E in mezzo uno scambio epistolare che è il documento di una cauta amicizia e lo specchio dell’allora opposizione frontale tra cultura laica e modello cattolico. Un cospicuo mannello di lettere dove occorre saper leggere, con i testi, anche gli eloquenti silenzi o le meditate omissioni, così da abbracciare con i profili dei corrispondenti i loro mondi nell’autocoscienza di un’epoca. Fa bene a ricordarlo Emma Giammattei, grande esperta di "don Benedetto", introducendo queste pagine esemplarmente curate da Gianluca Genovese (Benedetto Croce-Giuseppe De Luca, Carteggio 1922-1951, Edizioni di storia e letteratura, pagine XLIII-206, euro 34). Insieme al "non detto" sono qui da considerare – con l’iniziale genuflessa ammirazione di don Giuseppe per Croce  e la coperta reticenza del filosofo dissoltasi solo nell’ultima parte del carteggio – anche il senso di troppe sorvegliate espressioni, di lunghi intervalli (ad esempio dal 1930 al 1932, quando il divario gli interventi deluchiani sui giornali e la sua cerimoniosità privata sarebbe stato insostenibile), di confessioni di responsabilità limitata, tutti segnali di difficili retroscena. Ciò nonostante il carteggio non si arresta, continuando a palesare dichiarazioni che – rinfaccia Croce a De Luca – nascondono la vera condizione del suo spirito. «Non dimentichi che scrive un prete, e su una rivista di prete», confida nel marzo ’43 don Giuseppe al filosofo. E quello risponde: «Lei mi dà l’impressione di chi debba sedere sopra una sedia che gli è molto incomoda e nella quale non riesce ad accomodarsi. Perché, con tanta sua intelligenza e cultura sulle cose letterarie e storiche, non preferisce la sedia di questi studii? Avrebbe da dirci cose assai utili…».Ricostruire il vero significato di questo difficile dialogo a distanza è poi possibile periodizzando la corrispondenza che vede una cesura attorno al ’41-’42. Quando Croce pare trarsi fuori dalle battaglia del suo tempo, fra la neoscolastica di padre Gemelli, l’attualismo di Gentile, l’idealismo storicista, il fascismo o l’antifascismo, mostrandosi più aperto nei confronti di De Luca nel frattempo sempre più vicino a Giuseppe Bottai (sono le stagioni di Primato, della seconda guerra mondiale, ma pure l’alba delle Edizioni di storia e letteratura). E quando, nella Critica appare il saggio Perché non possiamo non dirci cristiani che sorprende i cattolici e i laici, obbligati a interrogarsi su questa riflessione destinata a dilatarsi, e poi a influire – pare– sull’opera deluchiana da anni in gestazione, ma uscita solo nel ’51: l’introduzione all’Archivio Italiano per la storia della Pietà  (che di certo ne fa tesoro sul piano metodologico, ma forse pure contenutistico). Fra le missive più belle del carteggio, quelle scambiate a ridosso della messa all’Indice delle opere di Croce o che, diciassette anni dopo, accompagnano la spedizione dell’Archivio di De Luca. Queste, sì, erano già note, ma non si può non tornare a rifletterci sopra. Né quando Croce all’Indice – nel giugno ’34 scrive a don Giuseppe «il metodo dell’ignoranza, che la Chiesa stima necessario a serbarle i fedeli, riguarda la Chiesa e non me. Vedrà essa nei giorni delle prove (direi, che l’ha già visto) quale assegnamento possa fare su genti educate a quel modo, tenute nella passività mentale…». Né quando, nell’agosto ’51, don Giuseppe confida al filosofo : «…Sta di fatto che io ho potuto vedere certi temi e problemi, solo quando in Italia lei ha inaugurato un modo, e non soltanto un modo, ma una sostanza di pensiero». Ma fermiamoci almeno su un paio delle lettere meno note. Ed ecco allora lo scambio del marzo 1930, quando la corrispondenza sta per interrompersi per la prima volta. De Luca ha partecipato con lo pseudonimo di "Fuligatto" o "Fucinus Monens" agli affondi rivolti alla Storia d’Europa nel secolo decimo nono di Croce. E capita subito dopo che il filosofo concluda una recensione sulla Critica con una frase che De Luca sente sulla sua pelle: «Guardarsi, dunque, dai preti…». Croce lo rasserena distinguendo tra il piano della istituzione e dei suoi «indirizzi e dirizzoni», e il piano su cui si muovono le «singole persone» (ndr: si vedano le due lettere riportate in questa pagina). E si continua con il sollievo del sacerdote erudito convinto che «a esser preti, e volerlo essere meglio che si può, ci si lascia mangiar vivi anche dalle mosche». Non secondaria, infine, in questo volume, l’appendice, con cinque testi: la risposta deluchiana sul Regno – all’inizio del ’43 – al saggio Perché non possiamo non dirci cristiani  («…ma quando è stato mai, Cristo, un mito del giorno? Non sente il Senatore – noi lo sentiamo – un moto di riguardo verso coloro, che, sebbene non puramente, tuttavia si fossero vòlti a Cristo?...» ) e l’articolo Croce rincristianito per dispetto, firmato su Critica fascista da Bottai ma le cui argomentazioni sono interamente tratte da una missiva di De Luca. E tre interventi deluchiani su Croce che don Giuseppe aveva definito anche «Benedetto XVI, antipapa napoletano» e del quale mai avrebbe condiviso tesi di fondo : «Che Iddio, che Cristo, che il cristianesimo siano nella storia, nessuna difficoltà; ma che siano mera storia, no». Commosso in ogni caso il ricordo deluchiano del ’52, dopo la morte del filosofo «quella cara figura vivente che per tanti anni noi abitualmente abbiamo veduta, come il monte più alto nel paese (intellettuale) dove siamo nati e cresciuti».
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