sabato 7 novembre 2015
​Ancora prima della marcia su Roma il Duce cercò di garantirsi l'appoggio dei capitali americani.
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Con poche distinzioni tra le amministrazioni repubblicane e quelle democratiche, il sistema politico, l’industria culturale e l’opinione pubblica americani fiancheggiarono Mussolini per quasi vent’anni: dalla sua ascesa al potere, con la Marcia su Roma del 28 ottobre 1922, praticamente fino all’entrata in guerra del gigante a stelle e strisce, nel dicembre 1941. Un grande ruolo, nell’indurre i presidenti Usa a tenere la barra ferma nella posizione di sostegno al Duce e al suo regime, venne giocato dalla vasta comunità degli immigrati di origine italiana – bacino elettorale che nessuno statista accorto poteva inimicarsi –, i cui umori e sentimenti volgevano a netto favore dell’esperimento fascista. Il colpo di Stato delle camicie nere del 1922, per cominciare, venne preceduto da uno strano colloquio tra il Duce e l’ambasciatore americano in Italia, Richard Washburn Child, che più tardi avrebbe vestito i panni del biografo americano del capo del fascismo. Quell’anomala visita al diplomatico aveva tutto il sapore di un tentativo di ricevere l’avallo preventivo del governo di Washington all’assalto al cuore delle istituzioni da parte degli squadristi. Da quanto accadde poi, si ha ragione di credere che quell’accordo vi sia stato. Il nuovo governo fascista, che nella sua prima fase fu liberista in economia e si resse sul sostegno del libero Parlamento, divenne infatti il volano degli investimenti dei grandi capitali statunitensi nella Penisola. I presidenti repubblicani Warren G. Harding, Calvin Coolidge ed Herbert Hoover si preoccuparono anzitutto di mandare a Roma rappresentanti e negoziatori in grado di garantire le migliori intese con il dittatore. Oltre al già citato ambasciatore Child, altri personaggichiave dell’approccio distensivo con Roma furono il ministro del Tesoro e il segretario di Stato dell’amministrazione Coolidge, rispettivamente Andrew Mellon e Frank Kellogg, ma anche il banchiere Thomas William Lamont, direttore della J.P. Morgan, e il capo della diplomazia del successivo governo Hoover, Henry Stimson.  A tale proposito, pare che la corrente di fiducia, e di simpatia, che si instaurò tra Hoover e Mussolini, fosse dovuta anche al fatto che il capo della Casa Bianca aveva avuto un padre fabbro come il Duce. A Lamont, in particolare, si dovette il successo ottenuto negli accordi per la sistemazione del debito che l’Italia aveva contratto con gli Stati Uniti durante la Grande Guerra. La cifra da saldare venne fissata in 2 miliardi e 42 milioni di dollari. Nel momento in cui il conte Volpi di Misurata, il piraña finanziario del governo Mussolini, staccò un assegno di 5 milioni di dollari, a saldo della prima rata del debito, sullo Stivale piovve un maxiprestito della Banca Morgan da 100 milioni di dollari. Il rovescio della medaglia fu che il governo italiano dovette sganciare una tangente da 4,5 milioni di dollari.  Vettore degli investimenti Usa in Italia fu la Banca italiana di sconto di Angelo Pogliani. I capitali d’oltreatlantico furono impiegati soprattutto nel campo delle opere pubbliche, per l’ammodernamento della rete infrastrutturale del Paese: da quella ferroviaria a quella portuale. Un grande ruolo lo giocarono i programmi per l’elettrificazione. Nel 1929, gli investimenti americani ammontavano a 66,5 miliardi di dollari. Una forte presenza di capitali Usa si registrava nei settori della lavorazione dei metalli leggeri, non ferrosi, come l’alluminio, lo zinco e il rame, con una grande ricaduta sull’industria navale, aeronautica e ferroviaria. Tra le molte società coinvolte in attività economiche pubbliche e private, figuravano la Ford, l’Allied Machinery, la Westinghouse, e la National Cash Register, azienda produttrice di registratori di cassa e macchine contabili. Una 'buccia di banana', sulla quale Mussolini rischiò seriamente di rompersi l’osso del collo, fu il caso Matteotti. Il leader socialista, infatti, al momento di essere rapito e ucciso da sicari prezzolati del ministero degli Interni, aveva pronto un dossier in cui denunciava l’intreccio affaristico intervenuto nelle concessioni per la ricerca e lo sfruttamento petrolifero in Italia. L’americana Sinclair Oil, al prezzo di una tangente da un milione di lire, si era aggiudicata l’affare, operando quale prestanome della compagnia Standard Oil, il colosso saldamente custodito nei forzieri dei gruppi finanziari Rockefeller, Mellon, Morgan, Guggenheim. Forse lo stesso Mussolini non era stato posto nella condizione di conoscere che la Sinclair non fosse cosa diversa dalla Standard Oil. La convenzione tra la società americana e lo Stato italiano alla fine venne invalidata, ma ci vollero anni perché il regime fascista sottraesse il settore energetico ai tentacoli delle grandi compagnie straniere.  Con l’avvento del New Deal rooseveltiano, ossia la risposta dei pubblici poteri alla depressione seguita al tracollo del 1929, si registrò un’altra, significativa sintonia tra Roma e Washington. Il Duce considerò infatti, con discorsi e interventi anche sulla stampa d’oltreoceano, l’esperimento dell’amministrazione democratica come una variante americana del corporativismo fascista. L’intervento dello Stato nell’economia, anche in Italia, a partire dal 1930, divenne una necessità: il fascismo seminazionalizzò il sistema bancario e diede vita all’Iri. La fase liberista del regime si era esaurita. (2- continua) © RIPRODUZIONE RISERVATA 
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