domenica 12 settembre 2021
Nel XXVI canto del Paradiso il Poeta si accosta al progenitore quale «primo di ciascuno» di noi, ormai nell'eternità di una pienezza senza divenire
La “Creazione di Adamo” dipinta da Michelangelo sulla volta della cappella Sistina, particolare

La “Creazione di Adamo” dipinta da Michelangelo sulla volta della cappella Sistina, particolare

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L’incontro con Adamo avviene al compimento di un canto, il XXVI del Paradiso, ove dapprima Dante è esaminato da san Giovanni «aguglia di Cristo » (v. 53) sulla carità, sì da suggellare e certificare il suo credere: «con la predetta conoscenza viva, / tratto m’hanno del mar de l’amor torto, / e del diritto m’han posto a la riva» (vv. 61-63); ma quella «conoscenza viva» è percorsa ancora, morsura e memoria inestinguibile, dal ricordo del parallelo viaggio (canto XXVI del-l’Inferno) di Ulisse e di quel «mar sovra noi richiuso».

Adamo è introdotto da Beatrice: «E la mia donna: “Dentro da quei rai / vagheggia il suo fattor l’anima prima / che la prima virtù creasse mai”» (vv. 8284), in termini che sottolineano la primizia (l’anima prima / la prima virtù) del rapporto originario tra il primo uomo e il suo Dio, ed anche il privilegio di un geloso compiacimento di creatore e creatura in quel «vagheggia» che designa l’istante palpitante e unico della creazione dell’anima: «Esce di mano a lui che la vagheggia / prima che sia, a guisa di fanciulla / che piangendo e ridendo pargoleggia, / l’anima semplicetta che sa nulla» ( Purg., XVI, 85-88).

Quanto il poeta esprime al centro esatto della Commedia si ripete per celebrare quella prima anima creata, prototipo e radice dell’umanità intera: Adamo è in Paradiso innanzi tutto per quel divino «vagheggia» che creò e nella creazione si compiacque: «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona» (Gen 1, 31). Adamo vi è lì, nella matura perfezione del primo istante, in una pienezza senza divenire: «O pomo che maturo / solo prodotto fosti, o padre antico » (vv. 91-92): e tale sarà, per Michelangelo, l’Adamo della Sistina.

La novità del poema è notevole: Dante incontra Adamo quasi al sommo del Paradiso, nonostante un testo attribuito a sant’Agostino avesse chiaramente dichiarato: «Factus est Adam ut habitaret in terra; fides autem largiri dignata est ut in coelis sit habitatio nostra » [“Adamo fu creato per abitare in terra; la fede ci ha concesso il privilegio che in cielo sia la nostra dimora”] ( Questiones Veteris et Novi Testamenti, De principio, in PL, 35, 2370). Prima della venuta del Cristo, Adamo era nel Limbo, come ci ricorda san Tommaso: « Infernus damnatorum est locus poenalis respondens peccato actuali, sicut Limbus patrum locus debitus pro peccato originali » [ Super Sent., lib. 3 d. 22 q. 2 a. 1 qc. 2 arg. 1]. Il Limbo che Dante visita è strutturato come quello descritto da san Tommaso: «Più sopra è un luogo, nel quale vi è tenebra quanto alla mancanza della visione di Dio, ma non in quanto alla mancanza di grazia, né ivi è pena sensibile; e questo è il Limbo dei “santi padri”» [Super Sent., lib. 3 d. 22 q. 2 a. 1 qc. 2 co].

Dante poeta ripercorre, nella sua struttura del Limbo, quella distinzione e la porta poeticamente a compimento, sin dal IV canto dell’Inferno: «Trasseci l’ombra del primo parente, / d’Abèl suo figlio e quella di Noè, / di Moïsè legista e ubidente; / Abraàm patrïarca e Davìd re, / Israèl con lo padre e co’ suoi nati / e con Rachele, per cui tanto fé, / e altri molti, e feceli beati» ( Inf., IV, 55-61). E poiché a questi Padri non mancò la grazia, la venuta del Cristo li eleverà tra i beati: Adamo (Par., XXVI), Noè (Par., XII); Mosè ( Par., IV, XXIV e XXXII); David (Par., XX, XXV, XXXII); Rachele (Par., XXXII), radici di «quei che credettero in Cristo venturo» (Par., XXXII, 24).

Alla perfetta unità ed equipollenza tra Antico e Nuovo Testamento corrisponde altresì la simmetria tra cultura classica e cultura cristiana. Le ultime figure memorabili del canto XXXIII del Paradiso saranno la Sibilla e gli Argonauti: «Così la neve al sol si disigilla; / così al vento ne le foglie levi / si perdea la sentenza di Sibilla » (vv. 64-66) proprio perché simboli, soprattutto la prima, della intrinseca unità delle due culture, come aveva proclamato il Dies irae: «teste David cum Sybilla» e avevano confermato Hervé de Bourg-Dieu: «E anche profeti non cristiani qualcosa predissero del Cristo, quali la Sibilla e Virgilio» ( Commentaria in epistolas Pauli, in PL, 181, 600A) e non meno san Tommaso: «anche a molti pagani furono dagli Angeli concesse rivelazioni, anche del Cristo, come si evince dalla Sibilla, che manifestamente profetizzò del Cristo » ( Scriptum super Sententiis, 3, 25, 2, 2, qc. 2 co., 12).

In questo solenne contesto ricapitolativo dell’umanità e delle sue culture, non è solo naturale, dunque, che Dante – riprendendo i temi del De vulgari eloquentia – ripercorra la storia della parola e delle lingue umane, contemplando l’arbitrario che ci resta e il transeunte del mito di Babele: «La lingua ch’io parlai fu tutta spenta / innanzi che a l’ovra inconsummabile / fosse la gente di Nembròt attenta» (XXVI, 124-126), sì che neppure la pronuncia del Nome divino è rimasta intatta, soggetta pur essa all’invincibile mutevolezza degli usi umani: «Pria ch’i’ scendessi a l’infernale ambascia, / I s’appellava in terra il sommo bene / onde vien la letizia che mi fascia; / e El si chiamò poi: e ciò convene, / ché l’uso d’i mortali è come fronda / in ramo, che sen va e altra vene» (vv. 133-138).

Nello scenario dei tempi e delle generazioni, Dante è nominato una seconda volta da Adamo, non più per essere rimproverato e umiliato, come nella severa requisitoria di Beatrice, non appena ella si manifesta (Purg., XXX, 55 ss.), ma per essere posto come «nuovo Adamo» del tempo ultimo. Se ne avvide per primo il più acuto dei commentatori antichi, Giovanni Boccaccio, il quale nelle sue Esposizioni, e sin dal-l’Accessus, volle sottolineare, richiamando l’apostrofe di Beatrice, che Dante «a due eccellentissime persone in questo suo libro si fa nominare»:

«L’altra persona, alla quale nominar si fa, è Adamo, nostro primo padre, al quale fu conceduto da Dio di nominare tutte le cose create; e perché si crede lui averle degnamente nominate, volle Dante, essendo da lui nominato, mostrare che degnamente quel nome imposto gli fosse, con la testimonianza di Adamo; la qual cosa fa nel canto XXVI del Paradiso, là dove Adamo gli dice: “Dante, la voglia tua discerno meglio”, etc.». Una gran parte dei codici antichi infatti, e quelli redatti dalla mano del Boccaccio, e un novero cospicuo di incunaboli, portano infatti, ai versi 103104, non già: «Indi spirò: “Sanz’essermi proferta / da te, la voglia tua discerno meglio”», bensì: «Dante, la voglia tua discerno meglio». Dante, novello Adamo ed Everyman, come voleva Pound; «primo di ciascuno» di noi, nel sempre.

Terzine eponime

E cominciai: «O pomo che maturo​
solo prodotto fosti, o padre antico
a cui ciascuna sposa è figlia e nuro,
divoto quanto posso a te supplìco
perché mi parli: tu vedi mia voglia,
e per udirti tosto non la dico».

(Paradiso XXVI, 91-96)

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