giovedì 3 agosto 2023
Tra individui, città, regioni e nazioni il futuro dei rapporti non si fonderà più sui confini geografici e politici, bensì sulle “relazioni” del sistema digitale. Uno scenario analizzato da vari studi
Diversità e connessione, nuove geografie in rete

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Durante un recente viaggio a Tokyo, sono entrato in un negozio di mappe antiche. Una mappa cinese che posizionava la Cina al centro del mondo ha catturato la mia attenzione. In quel momento ho realizzato quanto siano convenzionali le rappresentazioni occidentali del mondo, spesso eurocentriche, e ho cominciato a riflettere sulla relatività delle nostre prospettive culturali. In fondo, era come se quella mappa cinese mi stesse sussurrando una verità nascosta, quella verità che il politologo indiano Parag Khanna ha recentemente definito connectography o “interconnesiografia”.

Un termine che fonde insieme connectivity (connessione) e geography (geografia), suggerendo una nuova interpretazione del mondo, incentrata sulle interconnessioni tra individui, città, regioni e nazioni, piuttosto che sui tradizionali confini geografici e politici. In Connectography: Mapping the Future of Global Civilization, Khanna sottolinea come la connettività sia la chiave del progresso economico e sociale nel mondo moderno. Le città e le regioni collegate prosperano, mentre quelle isolate faticano a tenere il passo. In un mondo sempre più interconnesso e digitalizzato, il futuro è già qui, e i vecchi modelli rischiano di diventare obsoleti. Così come la mia visione del mondo era stata messa in dubbio dalla mappa cinese nel negozietto di Tokyo, il nostro modo di concepire il mondo sta cambiando. Questo nuovo paradigma porta nuove opportunità e sfide: come preservare la ricchezza e la diversità delle culture locali in un mondo omogeneo? Come garantire l’accesso alla connettività per tutti? Come navigare nel sovraccarico informativo?

A fronte di queste domande, non possiamo ignorare le potenzialità di questo nuovo paradigma. Il mondo è cambiato radicalmente, e la rivoluzione digitale ha ampliato le voci e le realtà che dobbiamo considerare. Ci troviamo così di fronte a un caleidoscopio di visioni del mondo che influenzano il nostro modo di pensare all’essere umano, al punto che dovremmo parlare di antropologie, al plurale, anziché di un’unica antropologia. Di fronte a trasformazioni significative nel nostro modo di vivere, la reazione iniziale è spesso difensiva. Possiamo resistere alla novità, ignorarla perché ci riteniamo già aggiornati, o accettarla acriticamente, oscillando tra la chiusura e un’apertura indiscriminata.

Questi atteggiamenti estremi, però, tendono a polarizzare il dibattito invece di promuoverne uno costruttivo. In alternativa, è possibile affidarsi a una strategia non occasionale in cui si individuino tre percorsi complementari: riflettere sulla nostra tradizione culturale, comprendere la nostra cultura da una prospettiva esterna, imparare dalla unicità di diverse concezioni del mondo. All’interno del primo percorso, che cerca di recuperare temi e motivi della nostra tradizione culturale e filosofica, è possibile segnalare la recente pubblicazione, a cura di Massimiliano Martinelli, Letterio Mauro, Marco Moschini, Giuseppe D’Anna, della Storia della filosofia da una prospettiva antropologica per la casa editrice Città Nuova.

Questo manuale, nei suoi tre volumi che danno voce ad una significativa parte della comunità filosofica italiana, costituisce una aggiornata risorsa a disposizione di coloro che desiderano sondare le profondità della filosofia attraverso una lente antropologica. Il secondo percorso ci invita a dare valore alle visioni degli intellettuali provenienti da regioni un tempo considerate marginali, riconoscendo la loro importanza per la nostra cultura. Questa prospettiva ci ricorda l’importanza delle Lettere persiane di Montesquieu, che, attraverso una prospettiva esterna, ha svelato i pregiudizi della società francese.

Oggi, un esempio concreto di questo approccio è rappresentato da opere come Americanah di Chimamanda Ngozi Adichie. In questo romanzo, la protagonista Ifemelu, una donna nigeriana emigrata negli Stati Uniti, ci offre uno sguardo diverso su quella società. La letteratura ha il potere di cogliere le sfumature più profonde delle culture e di rivelare aspetti nascosti. In un contesto in cui la mappa del mondo si è capovolta e le periferie sono diventate centri di pensiero, siamo pronti ad accogliere le diverse voci provenienti da ogni angolo del pianeta?

Il terzo percorso, incentrato sulla peculiarità di ogni filosofia, trova in Virgilio Melchiorre un ispiratore. Era stato proprio il filosofo milanese, infatti, ad esortarci ad esplorare «gli orizzonti fondativi delle diverse tradizioni». Nel 2014, Filosofie nel mondo, da lui curato, trascendeva i confini occidentali: dal Dao di Laozi al neoconfucianesimo di Shao Yong, fino alle filosofie latinoamericana ed africana. Riguardo alla filosofia giapponese, il termine tetsugaku offre in effetti una prospettiva unica. Radicata nelle tradizioni buddhiste e shintoiste, essa sottolinea l’importanza del mutamento e della transitorieità incarnando vivacità intellettuale, prontezza d’ingegno e chiarezza mentale.

In un’epoca di “interconnessionografia”, potremmo forse imparare da questa filosofia che da secoli valorizza connessione e armonia? E così, come la mappa cinese ha riorientato il mio sguardo, dobbiamo permettere alla nostra visione del mondo di essere continuamente sfidata e ampliata. Non si tratta di abbandonare le nostre radici culturali, ma di includere una molteplicità di mappe che rappresentano il mondo da prospettive diverse. Ogni cultura ha la sua interpretazione unica e preziosa della realtà, e queste mappe cambiano nel tempo, così come le società che le creano. Questo è il potenziale della connectography: unire persone e luoghi attraverso le reti di connettività e svelare la ricchezza delle visioni del mondo.

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