martedì 2 gennaio 2024
Coniata da John Stuart Mill in piena Rivoluzione industriale, è diventata popolare grazie a romanzi e cinema. Presentata come specchio negativo dell'utopia, è una parente prossima della satira
Distopie

Distopie - Redd F / Unsplash

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Vita singolare delle parole. Ognuna ne ha una tutta sua. Anche le parole della stessa famiglia hanno una storia propria, come i membri di una famiglia umana. E la parola e il concetto di “distopico” fino a poco fa, vent’anni o meno, quasi non esistevano. O meglio vivevano una vita ben nascosta. Il primo a pronunciare (il 12 marzo del 1868) la parola “distopia” fu John Stuart Mill, utilitarista – non occorre essere storici della filosofia per intuire dove va a parare l’utilitarismo –, allievo dell’occasionale proto-distopico Jeremy Bentham il quale progettò un carcere che potesse essere sorvegliato da una sola sentinella. Tale trovata doveva incutere enorme soggezione ai carcerati: se uno solo basta a controllarci..., pensò Bentham che avrebbero pensato i poveri reclusi, col seguito della frase che solo lui potrebbe esprimere al meglio, e che infatti espresse nel suo Panopticon, al quale lavorò vent’anni. La parola, dunque, nata in epoca sommamente distopica di distopia presente – l’infernale Rivoluzione Industriale: grande e macchinosa conquista per la quale, per il primo centinaio d’anni, alcuni dovevano pur soffrire un poco – era quasi scomparsa. Poi qualcuno ha scritto un libro distopico da mezzo secolo che non se ne scrivevano, salvo quelli di fantascienza che però tutti chiamavano “di fantascienza”, un libro che subito piacque, oppure fu ideata una serie – poniamo Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood, prima romanzo e poi film, poi serie, poi graphic novel... – e la parola è diventata quasi comune. La distopia è l’utopia al contrario, com’è noto. E fino alla nuova voga della parola era detta così: utopia negativa. Un grande romanzo che si interroga sul futuro dell’umanità e lo vede male (mettiamo che sia stato, altra ipotesi, La strada di Cormac McCarthy, 2006) suscita interesse. L’interesse di ogni grande romanzo quale che sia il genere. Nascono tanti figli e nipotini in ogni lingua, in pochi anni. Il mondo editoriale è invaso da una serie di utopie al contrario cresciute più su quel primo grande romanzo o azzeccata serie che sul pessimismo del momento. E noi siamo nell’imbarazzo del non saper come intendere, valutare, la visione del futuro partorita da tante distopie. Se spaventarci davvero, quanto spaventarci... Si sa che la distopia esagera, ma lo fa per indicare una direzione. “Se continuate così, non finiremo come vi prospetto, forse, ma quasi”. Non sappiamo quanta sia la parte di imitazione o di gioco. Quanto di: “La distopia comincia a funzionare: ne voglio scrivere una anch’io”. E “funziona” tanto che la narrativa per ragazzi, la cosiddetta young adult, è una vera fabbrica di distopie. A giudicare dell’autenticità dovrebbe essere la qualità, come sempre. Saranno vitali e perfino verosimili, che nel nostro caso vuol dire preveggenti, solo le storie riuscite e letterariamente di valore. Che basterà misurare su quelle già riuscite: su Orwell e Huxley, Bradbury, Vonnegut, Zamjatin, Philip K. Dick. Ma si potrebbe andare indietro fino a Swift, alla Erewhon di Samuel Butler, che ha appena compiuto 150 anni.

Il malinconico del gioco o della moda, o anche solo della circostanza, è che forse non vogliamo nemmeno più inventarci un futuro vivibile. Nemmeno per finta ci azzardiamo a pensare un avvenire in cui si possa vivere seppure incredibilmente, inverosimilmente come nelle topie con la u. Le quali però, purtroppo, erano già alquanto distopiche. Si figuravano un futuro modellato su un vago, rimpianto o inesistente passato, utopico per alcuni e involontariamente distopico – cioè dispotico – per altri, di solito la maggioranza. L’intenzione però era buona, l’effetto sempre singolare, qua e là divertente, desiderabile e temibile. L’utopista è (era) un moralista preoccupato del presente, che si ingegna di progettare un futuro secondo lui felice. Ad attestare della serietà dell’intenzione bastano in nomi: More, Campanella, Bacon. L’utopista insomma modella un avvenire diverso dal presente. Il distopista prende il presente come punto d’appoggio e lo peggiora a piacimento. Operazione più semplice: molto è già dato. Eppure, anche qui, dipende da chi elabora. A Georges Orwell la pena per la società in cui viveva plasmò i tratti per sempre (confrontare le facce dei distopisti attuali con quella di Orwell, Philip K. Dick, Huxley). Ma accade come per la satira in generale. Uno la fa soffrendo, un altro godendo. Altri, come forse Swift, le due cose insieme.

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