sabato 19 settembre 2015
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Il mezzo cinematografico permette di esprimere emozioni intense, trasmette un pensiero e instaura una relazione emotivamente forte con lo spettatore. Troppo spesso però questa profonda forza di scambio con il pubblico (una forza che è capace di rendere il cinema uno straordinario mezzo di condivisione) viene annullata perché inscatolata in film-prodotto il cui principale, e forse unico, scopo è ottenere successo al botteghino. Quando questo accade, ecco che un film si trasforma in un semplice prodotto di consumo. Riflettendo su quello che è stato il mio percorso, mi accorgo di aver ricevuto molti “no”. Qualcosa che sono certo sia accaduto a quasi tutti i miei colleghi, anche a quelli che, come me, sono poi riusciti a trasformare la loro passione per il cinema in un lavoro. All’inizio della mia carriera mi sentivo ripetere, come un Leitmotiv, dai produttori che contattavo, «Bello questo film, avvincente questa storia... ma inventiamoci qualcosa di più leggero... adesso vanno di moda le storie di giovani divertenti e simpatici». E io, parliamo già di una quindicina di anni fa, mi trovavo in imbarazzo: da una parte provavo disagio all’idea di convivere con proposte che non consideravo interessanti, dall’altra sconforto nei confronti di un meccanismo che mi appariva privo di coraggio. Le mie forti convinzioni, unite a una certa dose di testardaggine, mi hanno per fortuna spinto a rispondere a mia volta “no” a chimi proponeva di sviluppare soggetti “facili”, “commerciali”, e questo non tanto per una “presunzione” intellettuale quanto per una particolare e istintiva autodifesa che mi portava a pensare che non avrei saputo come gestire un film per cui non sentivo emozione e passione. Negli ultimi vent’anni, ciò che ha caratterizzato man mano l’evoluzione del cinema italiano è stata la scelta di progetti con potenzialità commerciali, spesso considerate tali solo sulla base di gusti televisivi. Sovente sono stati marginalizzati dalla produzione – e di conseguenza anche dal pubblico – proprio quei progetti che potremmo definire più “culturali” e utili alla società. Con la scusa che siano i gusti del pubblico a determinare e richiedere un certo tipo di prodotto, si è creato quello che ormai è un circolo vizioso, e c’è da chiedersi se ad alimentarlo abbia contribuito – anche se involontariamente – la debolezza di quel cinema d’autore quando si rinchiude su una certa autoreferenzialità. Le due anime del cinema, intrattenimento e approfondimento, hanno permesso, pur nelle loro differenze di genere, di raggiungere diverse tipologie di pubblico, regalandoci nei casi in cui esse coesistono, anche veri e propri capolavori. Ultimamente, però, il cinema di “qualità” fatica nel trovare risorse produttive e spazio in sala. Bisognerebbe, invece, pensare a un cinema, a una letteratura e a un’arte che abbiano lo stesso valore delle relazioni umane, che creino fra autore, opera e spettatore un legame profondo e autentico, simile all’amicizia.Le relazioni più importanti nella nostra vita sono quelle affettive e hanno la caratteristica di durare nel tempo, accompagnandoci in un lungo cammino. Il mio desiderio è ricreare questo stesso meccanismo nell’ambito di quel che faccio: arrivare a far sì che le cose pensate, scritte e poi realizzate possano accompagnare le persone in un percorso di condivisione e di crescita emotivamente forte. Ovviamente non è sempre facile [...]. Il mio primo lungometraggio per il cinema, Il vento fa il suo giro, ha avuto una gestazione molto lunga. La scrittura ha richiesto più di un anno, e gli interlocutori cui presentavamo il progetto non si rivelavano certo entusiasti: «Un film ambientato in un piccolo paese di montagna che ha per protagonisti capre, e pastori che parlano un dialetto quasi incomprensibile... a chi può interessare?». Più o meno in questi termini si espresse, in due diverse occasioni, anche la commissione ministeriale incaricata di sostenere la produzione cinematografica, che giudicò l’idea inadeguata al finanziamento. Caparbi, io e Fredo Valla, autore del soggetto e, insieme con me, della sceneggiatura, presentammo quello stesso copione a un concorso indetto dal Trento Film Festival, e vincemmo il primo premio: una piccola sovvenzione di circa duemila euro. Un segnale che sembrava fare da spartiacque tra due mondi agli antipodi: c’era chi ci diceva che la nostra idea di film non andava bene e chi invece sosteneva fosse un progetto bellissimo e ci incitava a tenere duro [...]. La svolta fondamentale è avvenuta nel 2003 con l’entrata in società di Mario Brenta e soprattutto di Simone Bachini [...]. Se alla fine Il vento fa il suo giro è venuto alla luce è stato proprio per merito della forza straordinaria di quella prima condivisione di parole e intenti, e delle tante altre condivisioni che successivamente si sono susseguite. Penso che solo in questo modo si possano raggiungere obiettivi a prima vista molto difficili. Un uomo da solo non potrà mai spostare un grosso masso, ma con l’aiuto di quattro uomini riuscirà a sollevarlo. Una riflessione, questa, che prescinde dall’ambito del cinema e tocca il grande potenziale che la società ha: il valore di essere insieme, di essere comunità, di essere un organismo che si unisce per raggiungere uno scopo.Vivere una vita buona e bella che permetta di realizzare i propri sogni, le proprie aspirazioni: un lavoro, una famiglia, la gratificazione di chi mantiene solidi i propri affetti. Tutti obiettivi che possiamo raggiungere più facilmente se cogliamo al volo l’occasione di contribuire al miglioramento della vita degli altri, e se mettiamo in atto la condivisione.
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