lunedì 26 settembre 2022
Ripubblicato da Curci, nel cinquantesimo della scomparsa dello scrittore e pittore, il volume scritto nel 1987 da Luciano Chailly (morto vent'anni fa) sulla loro speciale collaborazione artistica
Dino Buzzati e Luciano Chailly

Dino Buzzati e Luciano Chailly

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«…e fu inoltre il più grande pittore del XX secolo». Con questa aggiunta in penna al testo originale, Dino Buzzati aveva modificato di nascosto il suo stesso “coccodrillo” conservato per la fatale occasione negli archivi del Corriere. Scherzava ma non troppo: si considerava un pittore che per diletto scriveva anche articoli e romanzi, anziché uno scrittore e giornalista che a tempo perso trasformava in quadri i suoi racconti. Eppure accanto ai primi tre Buzzati ne esisteva un altro meno noto ma non meno geniale, anzi più di uno: l’autore di libretti d’opera, ma anche lo scenografo e il costumista, che tra gli anni ’50 e ’60 trovarono la loro espressione nel sodalizio con il musicista Luciano Chailly. Un sodalizio poi quasi dimenticato, e all’epoca accolto anche a suon di fischi (è il destino di chi osa innovare, con le dovute proporzioni capitò al Fidelio di Beethoven o alla Butterfly di Puccini), ma il tempo è galantuomo e, nelle rare occasioni in cui oggi i teatri italiani ripropongono gli atti unici di Chailly-Buzzati, il calore stupefatto del pubblico dimostra come quel linguaggio letterario-musicale sia tutto da riscoprire.

E’ allora preziosa la riedizione che l’editrice Curci ha appena dedicato ai 50 anni dalla scomparsa di Buzzati e ai 20 da quella di Chally ­– morti rispettivamente nel 1972 e nel 2002 a Milano – riproponendo il libro “Buzzati in musica. L’opera italiana nel dopoguerra”, volume scritto nel 1987 dallo stesso Chailly (304 pagine, 23 euro). Introdotto dalla nuova prefazione del critico musicale Angelo Foletto, il libro fa luce sulle reciproche influenze tra il mondo musicale italiano del secondo dopoguerra e la narrativa immaginifica dell’autore del Deserto dei Tartari, di Un amore, di Poema a fumetti e di centinaia di racconti in cui gli oggetti stessi diventano messaggeri di un altrove, esercitando immancabilmente sul lettore un misterioso sortilegio.

A parlare del rapporto speciale tra i due artisti è già la copertina, che li propone sorridenti – le teste vicine –, addirittura divertiti, probabilmente l’unica foto esistente che fissi una risata di Dino Buzzati, altrimenti compassato come un soldato sempre sull’attenti. “Due sognatori d’alta quota insieme” li definisce la prefazione, e in effetti si arrampicarono come in cordata per aprire nuove vie inesplorate. L’eterno dualismo tra compositore e librettista, spesso in attrito per attribuirsi priorità gerarchica e libertà creativa, non esiste nel binomio Chailly/Buzzati, fusi in un’armonia che amplifica reciprocamente i talenti. Nelle quattro opere Ferrovia sopraelevata, Procedura penale, Il mantello ed Era proibito, e nel balletto Fantasmi al Grand Hotel, le atmosfere realistiche e insieme surreali di Buzzati trovano così nelle partiture di Chailly un perfetto corrispettivo musicale, e viceversa.

Tra aneddoti, lettere, testimonianze, il libro è particolarmente gustoso nel raccontare, senza veli, successi ma anche fiaschi, nonché la proverbiale ritrosia di Buzzati che non esce sul palcoscenico a prendersi i fischi misti ad applausi. Emblematico ciò che accadde nel ’55 a Bergamo alla prima di Ferrovia sopraelevata (che noi abbiamo avuto il privilegio di rivedere al Piccolo Teatro di Studio di Milano nel 2009, dove raccolse ovazioni): “Alla fine del quinto episodio l’apparizione del cane in scena, un cane vero (che tra l’altro fece benissimo la sua parte) provocò una repentina sfacciata ilarità. Si sentì uno che chiaramente disse: “L’autore!”… Ma fu quando l’anima del cane cominciò a parlare tra le nubi, che esplose una forte reazione”, scrive Chailly. Suo fratello e il regista erano decisi a salire in loggione e fare a botte con i disturbatori, “ma Buzzati, verde e inebetito, li dissuase».

E pensare che lì c’era già tutto il Buzzati surreale che ancora oggi ne fa uno degli autori più amati del Novecento (come non riconoscere i tanti cani, struggenti messaggeri, di numerosi suoi racconti e quadri?). Andò meglio con Era proibito, la grande occasione commissionata ai due artisti nientemeno che dalla Scala di Milano. «Buzzati ebbe un sussulto sulla seggiola nel suo ufficietto del Corriere della Sera: ”Mio Dio, ci siamo”. Nasceva così nel 1963 l’opera in un atto che Chailly compose dopo aver ricevuto il libretto dallo scrittore: “Mi fu portato da un fattorino del Corriere alla clinica dove ero in attesa dell’operazione all’appendicite di mio figlio Riccardo, che mi dava allora, bambino inafferrabile, qualche preoccupazione e di cui mai avrei previsto la folgorante carriera” (dal 2015 è direttore musicale del Teatro alla Scala, ndr).

Basta leggere il libretto per ritrovarvi tutto il Buzzati inquietante delle numerose “fini del mondo” raccontate e dipinte, con un’umanità allucinata mentre la luna, gigantesca e butterata, precipita sulla terra, il tutto venato da sarcasmo e forte senso etico: la colpa è nostra, che abbiamo proibito la poesia (da qui il titolo), la musica, la fantasia, rendendo meccanicistica l’umanità. Qui anche la luna è proibita da ben 90 anni e i personaggi rievocano con nostalgia i ricordi di chi l’aveva vista, “Sì, sì, una volta ho letto che la luna era bella, luce pallida d’argento, misterioso incantesimo che faceva pensare a cose tristi e bellissime”. Alla fine la luna riappare davvero nonostante i divieti (“La luce la luce. Non è il consueto, non è l’elettrico. Com’è pallida. Com’è diversa da tutto quello che conosciamo. O voce cara… anima, fiore…”, osano sognare i protagonisti incantati e impauriti, come nel coro alla luna della Turandot di Puccini). E’ la fine del mondo ma è anche il trionfo dell’amore e la liberazione da un’esistenza dominata da aridi ingranaggi.

Nelle ultime pagine scopriamo tra il resto che il regista Valerio Zurlini per il film Il Deserto dei Tartari (1976) chiese a Chailly la colonna sonora. Impresa non da poco, visto che il musicista avrebbe dovuto lavorare alla cieca, a migliaia di chilometri di distanza dalle riprese del film girato nella fortezza di Bam, in Iran. Zurlini voleva “una bella melodia folgorante”, Chailly intendeva tutt’altro, “comunque abbozzai due temi, a modo mio, un Tema della Fortezza e un Tema di Drogo e glieli spedii. Mai saputo più niente. Il mio foglietto pentagrammato sarà finito nel cestino di Cinecittà”.

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