martedì 7 settembre 2021
Pieghiamo il nostro assenso narcotizzato ai lustrini di una tecnologia che riduce lo spettro delle ambizioni per trasformarci in recipienti pubblicitari sempre più simili un modello privo di vita
Max Marra,  “2008  Miraggio  cosmos”,  tecnica mista  su tela. Opera esposta  nella mostra  “L’inquieta  bellezza  della materia”  al Marca  di Catanzaro

Max Marra, “2008 Miraggio cosmos”, tecnica mista su tela. Opera esposta nella mostra “L’inquieta bellezza della materia” al Marca di Catanzaro - Max Marra/Il Rio

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Escludendo il tema generativo che non le sarà mai accessibile, l’Ia esibisce le sue abilità più sorprendenti nella capacità di riassemblare contenuti. Micro o macro, porzioni di testo, immagini, linee, codice, non fa differenza, tritura tutto finemente, come la mucca del paradosso entropico, nel blender onnicomprensivo del codice binario. Se la mucca, per rimanere in metafora, può diventare hamburger non è altrettanto vero che l’hamburger possa tornare ad essere mucca, anche se sorprendentemente da un punto di vista teorico questa possibilità non è del tutto preclusa. Così lo sminuzzamento dei contenuti in componenti che ne sono frazione non dà affatto garanzia della ricostruzione di nuovi contenuti altrettanto sostanziali attraverso il ripristino del macinato informatico operato dall’algoritmo. L’entropia generata dal tritacarne dell’intelligenza artificiale si lega a un fato di inaccessibilità a un nuovo ordine vitale paragonabile a quello della sua origine. Trova quindi una strada di mezzo, l’orizzontalità del non senso. Si ricostruisce attraverso l’Ia come imitazione formale della mucca (metaforica), una sorta di sagoma priva di significato. Ciò che mancherà rispetto alla realtà sorgente non è solo il nesso di causalità che lo aveva generato, ma anche il collante vitale che ne determinava e giustificava l’esistenza. La tartare digitale viene così ridistribuita in nuove combinazioni, infinità di infiniti, tutte omogenee per assenza di un senso che non sia quello della fatalità combinatoria. Questi passaggi digitali spostano in un ambito del tutto nuovo la relazione tra associazione di elementi e conseguente rilettura dell’esistente. Oggi più che mai è attuale riflettere su quanto l’aggregazione di frammenti linguistici in senso lato sia un modo per ridefinire la realtà secondo principi sempre diversi, mutevoli, oggetto di un costante smottamento concettuale. Il campo è talmente aperto da risultare in uno spaesamento senza soluzione di continuità. Motivo scatenante della riflessione di oggi è la pervasività degli accoppiamenti che l’Ia assembla in base a tutto ciò che riesce a scannerizzare nei nostri device, computer, mobile, lavatrici intelligenti e quant’altro non fa differenza. Tutti sperimentano ormai da anni, con sempre maggiore puntualità e pervasività, l’apparizione di contenuti inaspettati nelle applicazioni più comuni ritenute a torto baluardo dell’individualità inviolabile. Questi sono sempre collegati a qualche evento digitale che abbiamo generato, magari per errore o per caso, di cui ci siamo dimenticati. L’Ia non dimentica. Questo è un suo limite, non una sua risorsa. Non tanto dal punto di vista della invasione della privacy, chimera a cui non siamo interessati in questo ambito, ma dal punto di vista della precisione e attinenza delle deduzioni che sfociano quasi sempre nel cosiddetto advertise mirato. Raccogliere ogni scarto di percorso tastiera non riflette la nostra realtà perché fortunatamente non siamo sempre logici. Ma l’Ia procede con passo sicuro e spedito. Per lei ogni digitazione e ogni clic, che con i touch screen sono diventati casa permanente di accidentalità sistematiche, offrono il gancio per una ricombinazione che ti ricolloca in uno scenario reso credibile da una rete di associazioni improbabili quanto inesorabili. Questo scenario si dipana in una orizzontalità di connessioni prive di causa e significato. Per quanto i programmatori si sforzino di aggiungere articolazioni ulteriori al modo con cui l’algoritmo opera nella scelta e ridistribuzione di contenuti, questi rimangono 'no man’s land' per fare il verso al titolo del film di Danis Tanovic. Sono a tutti gli effetti 'AI’s land'. Pensiamo al deserto salato nello Utah, dove si inseguono da decenni i record assoluti di velocità dei mezzi su ruote. Il deserto salato si presta alla velocità pura perché presenta attriti e asperità minimi; piattezza ed estensione sono il terreno della velocità. Il deserto salato dell’Ia è il territorio dei dati, privo di ogni accenno alla verticalità del senso. Un territorio privo degli attriti di riflessione e contrasto, dubbio e contraddizione che permette all’Ia di raggiungere velocità impensabili. Velocità del tutto inutili ai fini della crescita umana. L’Ia va veloce ma non va da nessuna parte. L’utente, inebriato di velocità, finisce per identificarla con la meta, col significato. Le proiezioni di noi stessi fatte dall’Ia in modo del tutto meccanico diventano credibili solo in omaggio alla loro velocità. E noi finiamo per volere assomigliargli. Pieghiamo il nostro assenso narcotizzato ai lustrini di una tecnologia che riduce lo spettro delle ambizioni per trasformarci in recipienti pubblicitari sempre più simili al modello costantemente rimodulato da un tritacarne a impulsi. Un modello privo di vita e pieno di meccanismi che appiattiscono l’esistenza in una gara priva di premio, ma veloce, veloce, veloce.

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