venerdì 24 novembre 2023
Al museo di Lovanio a la prima grande retrospettiva del pittore del XV secolo, genio prospettico dall’occhio reale e metafisico, qui accostato un po’ troppo a cinema e fotografia
Dieric Bouts, particolare del “Cristo coronato di spine” (1462) della National Gallery di Londra

Dieric Bouts, particolare del “Cristo coronato di spine” (1462) della National Gallery di Londra

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Pittore del silenzio, così era soprannominato Dieric Bouts, ma anche pictor ymaginum. Il direttore del dipartimento degli Old Masters, gli “Antichi maestri” del Museo di Lovanio, e curatore della prima grande retrospettiva dedicata al pittore nato forse ad Haarlem in Olanda attorno al 1410 (le fonti sono incerte) ma vissuto a Lovanio per quasi tutta la vita, rendendo i suoi servigi pittorici a molteplici soggetti della città belga; il critico Peter Carpreau ha orchestrato una mostra di tono “attuale” per raccontare la vicenda artistica e l’opera di un grande artista “inattuale”, realista e al tempo stesso metafisico, concreto e spirituale, che innestò il tardo medioevo nella nuova visione della prospettiva rinascimentale esprimendo una propria idea dello spazio che non resta succube degli sviluppi della pittura italiana, in particolare del coetaneo Piero della Francesca, anzi anticipando Giovanni Bellini, più giovane di una generazione.

Bouts si mette nel solco di Van Eyck e Van der Weyden, ma va oltre, come viene giustamente notato nel bellissimo catalogo che accompagna la mostra, potenziando molto la resa di profondità prospettica del paesaggio. Egli si avvale dell’effetto repoussoir, ovvero colloca in primo piano una figura o un elemento che, passaggio su passaggio, guida l’occhio dello spettatore dentro il quadro, come se potesse abitarlo. Un processo quasi cinematografico, a cui si ricollegano i curatori con qualche azzardo esemplificativo nel nostro tempo: il Santo Volto di Rotterdam viene esposto accanto a una fotografia del ciclista Eddy Mercks dopo lo sforzo sostenuto in una corsa del 1972. Volto stremato che vorrebbe richiamare fisiognomicamente quello del Cristo dei dolori o come Salvatore e Redentore. Accostamenti dunque avventurosi, su una linea “transtorica” al fine di rendere più evidente l’assunto che parla del pittore brabantino come “creatore d’immagini”.

Quando ci troviamo davanti alle diverse tavole del volto di Cristo dipinte da Bouts e dalla bottega di famiglia coi figli Dieric il Giovane e Albrecht, dobbiamo costatare che il miglior paragone possibile resta ancora quello pittorico. La testa coronata di spine se confrontata con la stessa immagine di Beato Angelico, dove il dolore raggiunge l’apice del tragico negli occhi iniettati di sangue, o con la Pietà di Bellini, nella sua gelida apparenza cadaverica, testimoniano la grandezza unica di questo pittore a lungo caduto nell’oblio, che sa essere ieratico con una intensità spirituale che, per esempio, non sottrae al Cristo della Resurrezione di Pasadena la sua sostanza d’incarnazione, anzi diventa una espressione della modernità “patetica” di timbro francescano (venne sepolto nella chiesa dei frati attigua alla sua abitazione), ovvero del genere empatico come nell’Uomo dei dolori della National Gallery di Londra che sembra far parlare le mani con i fori dei chiodi, due ferite d’impressionante verità fisica che sono la prova stessa della resurrezione.

Se dobbiamo considerarlo un creatore d’immagini, come potrebbe esserlo un fotografo o un cineasta oggi, c’è anche uno spezzone di Guerre stellari coi velivoli spaziali che compiono scorrerie extraterrestri, il cui pathos non raggiunge però l’intensità e la “terribilità” con cui Bouts dipinge la Caduta dei dannati, un quadro misterioso e pauroso, ben oltre i “mostri” di Bosch che forse poteva piacere più ai pittori surrealisti che ai maestri della fantascienza. Ma abbiamo capito l’antifona: ceci n’est pas une exposition. Lo presentano, infatti, come “Progetto Bouts” e ci viene detto che il concetto su cui si regge è radicale: “non considerare Bouts come un artista” perché per primi i suoi contemporanei lo vedevano soltanto con un artigiano dotato...

Ma a proposito di accostamenti azzardati, torna il celebre assunto di Hans Belting secondo cui l’arte del nostro tempo è stata data in pasto alla comunicazione, quindi risucchiata nel mondo mediatico che riduce tutto a immagine, e ciò potrebbe avere anche effetti metodologici retroattivi, come in questa mostra su Bouts. Si tratta di far amare un pittore “antico” e non sempre facile per uno spettatore di quelli che si muovono in sciami danteschi alle grandi mostre, e infatti l’idea di chi ha concepito questa mostra è che Bouts sia un titano dimenticato, e comunque un «primitivo fiammingo di seconda generazione » (un continuatore di Roger van der Weyden, per capirci, e del pioniere Jan van Eyck; ma – ecco ancora l’immancabile attualismo –, le sue scene, per quanto apocalittiche, risultano meno presenti su Instagram di quelle di Bosch, il pittore del circo infernale, par excellence); dunque bisogna fare qualcosa per rimediare. E così si rovescia anche la prospettiva: non è mica vero, si dice, che il “creatore d’immagini” sia un prodotto contemporaneo, un soggetto mediatico, per la semplice ragione che l’artista pittore come lo pensiamo e veneriamo oggi nel XV secolo non esisteva. Bouts faceva il suo mestiere, niente di romantico o di geniale: inventava immagini (seguendo i desiderata della committenza e facendosi assistere, nel caso, da un consulente teologico). Creava immagini sacre le cui linee tendevano a un punto prospettico centrale, che secondo alcuni corrisponde anche da una ispirazione filosofico-teologica, quella di Cusano, il quale diceva che tutte le linee devono convergere verso un punto immaginario, che è Dio. E se, come pare, Cusano aveva ricevuto due volte l’offerta di una cattedra dall’università di Lovanio, allora non sarebbe affatto strano, per i curatori, che Bouts conoscesse le idee del teologo tedesco.

Mi è accaduto di notare, in passato, che un altro pittore dell’epoca, Antonello da Messina, sembra tener conto di Cusano quando realizza il volto del Salvator Mundi. E avvicinando i ritratti di Cristo dei due pittori, poiché sicuramente il mondo nordico e fiammingo ebbe un peso nell’immaginario dell’artista siculo, non sarebbe strano se emergessero legami di qualche tipo anche tra loro. Pittore informato e ricercatore all’avanguardia nella prospettiva scientifica, Bouts viene quindi accostato alla visione spaziale del cinema realistico ma anche all’universo dei videogiochi che sulle rappresentazioni matematiche e illusionistiche fondano il loro sviluppo. Ancora una volta l’associazione è a mio parere pretestuosa e finalizzata a rendere l’esposizione interessante per un pubblico più vasto: marketing, insomma.

Ma Bouts è più avanti sebbene sia, storicamente, indietro di secoli. Difficile pensare che nella realtà virtuale si celi il sostrato spirituale che corre in profondità nella forma delle immagini di Bouts. Fu Panofsky, tra i primi, a sottolineare che nella pittura fiamminga, il realismo offre la maschera linguistica alla valorizzazione simbolica (spirituale e sociale). Ma perché, insinua la mostra, non trattenersi dall’immediato salto simbolico guardando invece le nella loro immanenza? Il ritorno alle cose, anche nell’Ultima Cena che chiude la mostra. E d’altra parte Bouts partecipa di quel vasto movimento nordico che va sotto il nome di devotio moderna: l’immagine sacra entra nelle case del singolo che, col suo altarino domestico, s’inginocchia davanti a Cristo, alla Vergine e ai santi e prega, in un certo senso, “privatamente”. Il popolare diventa l’obiettivo di una diffusione delle immagini che, nel caso devozionale, frammenta l’unità di popolo che si riunisce nella chiesa per la messa. Parcellizza il tempo sacro portandolo dentro le case.

Questo a Lovanio procede di pari passo con grandi investimenti pubblici, nel Municipio e nel l’Università, ma soprattutto nella stupenda chiesa di San Pietro. Grazie alla cassa di risonanza dell’università, dove le idee della devotio moderna vennero introdotte da Henri Wellens, che donò poi alla comunità del Fratelli della vita comune il priorato di Saint-Martin, si intensifica anche l’opera di copiatura di manoscritti spirituali e sacri, meno sfarzosi dei libri miniati, ma che saranno prototipi al livre de poche. Una delle opere più diffuse, era il De Imitatione Christi di Tommaso di Kempis. Il volto di Cristo con la corona di spine o quello stampato sul velo della Veronica (in mostra una splendida scultura del XIV secolo dai motivi iconico-bizantini), raggiunge con Bouts una forte verità umana, che la sacralità non rende meno realistica. Ugualmente, il ritratto della Vergine: risalendo alla tradizione dell’immagine dipinta da san Luca, il Bambino nelle Madonne che allattano è visto con umanità sorprendente: il piccolo Gesù ha la faccina soddisfatta di chi ha appena terminato la poppata e si prepara al ruttino come un qualsiasi altro bambino. Immagini che non concedono mai al simbolo più del necessario e sembrano istantanee fotografiche, ma da qui a sostenere che il ritratto del Cristo sofferente nel XV secolo abbia una verità popolare come certe fotografie agonistiche dei reporter sportivi, ce ne vuole. È un gioco fenomenologico che resta alla superficie di ogni possibile comparazione, un abuso di metodo come quello di certi antropologi e storici delle religioni che a fine Ottocento applicavano criteri comparativi studiando i rituali e i miti antichi sulla base di quelli praticati dalle tribù “primitive” del secolo moderno. Un errore anche di Warburg, quando studiò gli indiani Pueblo.

Lovanio, Museum Leuven
Dieric Bouts. Créateur d’images
Fino al 14 gennaio

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