mercoledì 4 maggio 2011
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Ogni società che cresce si fonda sulla selezione dei migliori e sono i migliori a produrre ricchezza, attraverso le scoperte scientifiche e le capacità economiche. Due concetti che nessuno, in Occidente, si sentirebbe in grado di mettere in dubbio. Eppure si tratta di affermazioni che, applicate così per come sono, mettono in crisi un principio essenziale e indiscutibile per un occidentale: quello di uguaglianza. La selezione dei migliori presuppone, infatti, la creazione di diseguaglianze, così come l’accumularsi di ricchezze nelle mani di un’èlite finisce, prima o poi, per produrre potentati economici destinati a perpetuarsi per via ereditaria o clientelare e comunque non per logiche di merito. Insomma, il merito finirebbe per negare se stesso, così come l’uguaglianza, negando il merito, finirebbe per impedire l’applicazione dei principi di proprietà privata e di libera determinazione degli individui, negando, nei fatti, la democrazia. Resta il grave problema di una società come la nostra, in cui si sente il bisogno estremo di tornare a logiche premiali, così che sia il merito, conquistato sul campo, non solo a definire la retribuzione, ma anche a far crescere nella carriera tanto lo studente quanto il professore, il ricercatore quanto il professionista, l’impiegato e qualunque altro lavoratore. Intorno a questo snodo essenziale la rivista trimestrale Paradoxa, promossa dalla "Fondazione internazionale Nova Spes", curata da Laura Paoletti e Vittorio Mathieu, ha costruito l’ultimo numero, con i contributi di numerosi studiosi di diversa estrazione culturale: si va, fra gli altri, da giuristi come Francesco D’Agostino a storici come Lucetta Scaraffia, da pedagogisti come Marcello Ostinelli a docenti di filosofia come lo stesso Mathieu, da economisti come Luigi Cappugi a politologi come Mario Tesini e Pietro Grilli di Cortona. Tutti, pur mettendo in guardia dai possibili rischi, sottolineano la necessità di reimpostare la nostra società su parametri meritocratici, se si vuole tornare a crescere. Naturalmente le argomentazioni differiscono sensibilmente fra loro, in alcuni casi, anzi, si contrappongono. Vittorio Mathieu, per esempio, insiste sulla caratteristica morale del concetto di "merito" e sulla conseguente difficoltà di misurarlo in funzione di una giusta retribuzione e della carriera. «Perciò trattare ciascuno secondo i suoi meriti non è un imperativo assoluto a cui debba obbedire una tecnica politica, ma un compito problematico che una società non può non proporsi... e non può permettersi di trascurare». Fortemente schierato in favore di «metodi meritocratici» è invece Pietro Grilli di Cortona, docente di Scienza politica a Roma tre, quantunque lui stesso ricordi che la meritocrazia può creare disuguaglianze e che spesso i metodi di misurazione del merito non premiare i migliori. Tuttavia, spiega, «quando il merito è applicato negli ambiti giusti abbiamo maggiori probabilità di vivere in una società più funzionale, più efficiente e, forse, addirittura più giusta ed egualitaria». Lucetta Scaraffia, al contrario, mostra di non avere alcun dubbio nel privilegiare i benefici ottenibili dalla logica meritocratica: «Il concetto di uguaglianza si è sempre dimostrato nemico della meritocrazia: lo conferma la storia dei regimi socialisti... In ogni sua forma la dittatura significa conformismo e il conformismo, specie se obbligatorio, è sempre stato il nemico più accanito del merito». Per la docente di Storia contemporanea della Sapienza, «parlare di merito vuol dire accettare che gli esseri umani sono diversi fra loro, che alcuni sono più dotati e altri meno, che alcuni hanno forza di volontà e stabilità psichica per cui riescono a raggiungere i loro obiettivi e altri no». Il problema è che in ogni caso una società deve selezionare e se non seleziona attraverso il merito «è più facile che metta in atto criteri inconfessati e quindi forse non condivisibili». Applicando il ragionamento alla questione italiana, Scaraffia si fa promotrice di una «rivoluzione culturale», che ci porti ad «accettare la selezione meritocratica», per diventare finalmente competitivi con il mondo. Un ragionamento nel quale si innesta, su analoghe posizioni, il realismo di Luigi Cappugi, che insegna Politica economica alla Lumsa di Roma: «Il merito chiede forme ragionevoli di disuguaglianza, che sembrano essere la condizione necessaria per produrre ricchezza. Non si genera ricchezza, per quanto ci è dato sapere, senza una distribuzione ineguale». A questo proposito Cappugi cita il filosofo ed economista austriaco Friedrich August von Hayek, secondo il quale «l’unica forma di uguaglianza che non distrugge la libertà e quindi la democrazia, è quella di fronte alla legge imposta dallo Stato e quella volontaria dei comportamenti sociali». Insomma, conclude il politologo, «una forma non utopica di convivenza civile, meritocratica, ragionevole, diseguale, accettata, non dovrebbe essere obiettivo irraggiungibile: potremmo chiamarla democrazia». Diversa la posizione di Mario Tesini, professore a Parma di Storia del pensiero politico, assai critico sulle capacità taumaturgiche della meritocrazia applicata alla società. Il merito, afferma, non può essere parametro fondativo di un nuovo ordine sociale, perché «l’aspirazione meritocratica alimenta una pretesa eccessiva», cadendo nel vizio «costruttivistico e perfettistico di chi non riconosce il carattere relativo e condizionato di ogni istituzione sociale». In sostanza, secondo Tesini, il richiamo al merito può avere una sua funzione retorica, ideologica di «provocazione intellettuale utile», ma non può diventare un «requisito scientifico, un parametro quantificabile di valutazione oggettiva». Critica anche Francesca Rigotti, che insegna Dottrina e istituzioni politiche a Lugano, per la quale il problema non è nei concetti di ricompensa, di giustizia retributiva e distributiva, «senza i quali l’intero mondo morale cadrebbe nel caos», ma risiede in una «ideologia del merito che confonde efficienza della società e giustizia resa all’individuo». Perché «una società che discrimina i suoi membri meno brillanti incoraggiando solamente i più dotati, raggiungerà forse una buona efficienza produttiva, ma trascurerà la giustizia dovuta al singolo».
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