domenica 11 aprile 2021
Caronte e Cerbero, Calcabrina e lo stesso Lucifero: i demoni che popolano l’Inferno dantesco sono la personificazione impudica del male e tanto assomigliano all’umanità perduta che vessano
Caronte in un'incisione di Gustav Doré per la “Commedia”

Caronte in un'incisione di Gustav Doré per la “Commedia” - archivio

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In quell’«aere sanza stelle» che è l’Inferno, nel nero turbine di «Diverse lingue, orribili favelle, / parole di dolore, accenti d’ira, / voci alte e foche, e suon di man con elle» (III, 25-27), «in quell’aura sanza tempo tinta» (v. 29), Dante e Virgilio costeggiano coloro «che visser sanza ’nfamia e sanza lodo» «mischiati » agli angeli che non furono né ribelli né fedeli; nel pravo grigiore di «questi sciaurati, che mai non fur vivi» (v. 64), alle rive d’Acheronte appare un vecchio nocchiero «bianco per antico pelo» che minaccia Dante, ricevendo da Virgilio la celebre risposta: «[…] Caron, non ti crucciare / vuolsi così colà dove si puote / ciò che si vuole, e più non dimandare » (vv. 94-96). Sopra quelle anime che «bestemmiavano Dio e lor parenti » si erge «Caron dimonio, con occhi di bragia» che incalza per il transito di dannazione «il mal seme d’Adamo» (v. 115).

In quella notte fonda, nella «buia campagna», il primo dei demoni si presenta con le pupille di fuoco, sguardo di brace ardente che divora. È una visione che attraversa tutta la cultura occidentale sino al Caronte del Giudizio universale di Michelangelo, nella cappella Sistina, e sino ai Sogni, 1990, di Akira Kurosawa, ove alla fine dell’espisodio 'Tunnel' il reduce, dietro il quale si sono incamminate le larve dei soldati del suo battaglione uccisi in guerra, risospinge quelle parvenze verso una galleria dalla quale spunta minaccioso un cane rosso e ringhiante, emblema a un tempo di Caronte e di Cerbero: «con tre gole caninamente latra / […] / Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra, / e ’l ventre largo, e unghiate le mani, / graffia li spirti ed iscoia ed isquarta» ( Inf., VI, 14-18). I demoni dell’Inferno dantesco sono un cumulo di perverse difformità, via via più ripugnanti quanto più s’aggravano le pene che essi contribuiscono con tormenti ad acuire: nella quinta bolgia, quella dei barattieri, entro la pece bollente, Dante vede «un diavol nero / correndo su per lo scoglio venire» (XXI, 2930); è il primo della masnada di Malebranche, che annovera Malacoda, Scarmiglione, e poi Alichino e Calcabrina, Cagnazzo e Barbariccia, Libicocco e Draghignazzo, Cirïatto e Graffiacane e Farfarello e Rubicante. È un’accolita insieme mostruosa e ridicola: se ne ricorderà il Manzoni che di pari sgangherati peggiorativi vestirà i nomi dei bravi che sono a corteggio del Griso: Tiradritto, Montanarolo, Tanabuso, «e lo Squinternotto ch’era il quarto (oh! vedete che bei nomi, da serbarceli con tanta cura), rimasero coi tre dell’innominato, e con quel ragazzo allevato alle forche, a giocare, a trincare, e a raccontarsi a vicenda le loro prodezze» ( I promessi sposi, cap. XX).

Edoardo Sanguineti nel suo 'travestimento' dell’Inferno, memore di Dante e di Manzoni e insieme della Commedia dell’arte, piega la scena al grottesco: i diavoli indossano variopinte masche- re da sub e si accaniscono a tormentare un androide, simbolo della società tecnologica che domina il nostro presente: «Ciriatto lo aggredisce con le sue zanne, lacerando l’androide; dal suo corpo escono grosse viti, bulloni, molle: è una sorta di robot che si guasta: mugolio interno, metallico, e voce di registratore che ruota impazzito» ( Commedia dell’Inferno). Sanguineti riprende qui, a suo modo, la lezione di Italo Calvino: «L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà: se ce n’è uno, è quello che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più» ( Le città invisibili, 1972, explicit). Più si discende tuttavia, più il fuoco che è ancora segno di luce e calore, e dunque di vita - si estingue e regna sempre più il freddo e il ghiaccio; il Male è, per Dante, privazione di bene e dunque di ogni partecipazione a esso quale è la vita. Nel «pozzo scuro», ove Anteo ha deposto i due pellegrini (canti XXXIIXXXIV), non c’è che scricchiolar di ghiaccio (con rime fonosimboliche come: Osterlicchi: Tambernicchi: cricchi); lì i pezzi del corpo si staccano come da un pack: «E un ch’avea perduti ambo li orecchi / per la freddura...» (XXXII, 5253). Il diavolo, etimologicamente, divide, lacera, squarcia; Dante stesso va sinistramente «passeggiando tra le teste» infitte nei «gelati guazzi».

Il male attira al fondo: il pellegrino incontra nella Tolomea dannati già in inferno, mentre le loro larve corporee sono ancora in terra, ma qui precipitati a patire come fatalmente attratti nel gorgo dell’abisso. Neppure più si può piangere, perché le lacrime gelano creando sul volto una visiera di doloroso gelo: «Lo pianto stesso lì pianger non lascia, / […] / ché le lagrime prime fanno groppo, / e sì come visiere di cristallo, / riempion sotto ’l ciglio tutto il coppo» (XXXIII, 94-99). Sono «invetrïate lagrime» che figgono e raggrumano nella morte molto più che «là dove bolle la tenace pece» (v. 143). Chi produce tale ghiaccio, ove le anime sono «come festuca in vetro» (XXXIV, 12), è «lo ’mperador del doloroso regno », Lucifero, che si erge col petto dalla morsa di ghiaccio e le ali di pipistrello - quasi vele - muove vorticosamente «sì che tre venti si muovean da ello: / quindi Cocito tutto s’aggelava» (vv. 5152). Sanguineti, nel riproporre la scena, fa di Lucifero una «gigantesca macchina » antropomorfa: «è un insieme caotico di meccanismi in funzione, alla Tinguely, sobbalzante, che procede minacciosa verso gli spettatori: il suo tremare è sincronizzato con il tremito dei cadaveri»; ma, d’un colpo, male che disgrega se stesso, la macchina «prende a decomporsi, a rompersi, a disfarsi sempre più rapidamente, in tanti pezzi: le sue luci […] saltano un po’ alla volta, e si spengono sino al buio completo». L’invenzione, splendida, di Sanguineti è proprio questa: il Male divora se stesso, smonta da sé, distrugge i propri meccanismi, tace nel proprio nulla. E così deve essere, secondo l’antica tradizione aniconica propria della spiritualità cistercense (san Bernardo sarà l’ultima guida di Dante in Paradiso), poiché ogni immagine può divenire idolo: «sub tegmine simulacrorum diabolus colitur» (Ambrosiaster, Commentaria in Epistolam ad Corinthios Primam, cap. X; in PL, 17, 237A: «sotto il velo dei simulacri, si venera il diavolo»).

La terzina eponima

Noi andavam con li diece demoni.

Ahi fiera compagnia! ma ne la chiesa

coi santi, e in taverna coi ghiottoni.

(Inf., XXII, 13-15)




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