mercoledì 9 luglio 2014
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​Quando sei giovane, di solito, li invidi. E se non li invidi, li critichi. Perché apparentemente hanno la strada spianata, tutte le porte aperte, le amicizie giuste. Tutto per merito di mamma e papà, che sono famosi. Poi cresci e li guardi da vicino. E alcuni non ti sembrano più così fortunati. Perché essere cantanti e «figli di» rischia di diventare un affare complicato. In casa nostra, lo sanno bene Cristiano De André, Paolo Jannacci e persino la non artista (in senso classico) Dalia Gaberscik, figlia di Gaber e Ombretta Colli. Quella di Cristiano De André è la storia più emblematica. Per il suo esordio scelse una band, i Tempi duri, e delle sonorità (alla Dire Straits) molto lontane da quelle di papà Fabrizio. Crescendo si è avvicinato sempre più al territorio del padre. In più, la natura l’ha dotato di una voce molto simile a quella di Fabrizio. Così, i giornalisti hanno cominciato sempre più spesso a fare paragoni. A chiedergli cosa pensasse papà delle sue cose. E per lui sono iniziati i guai. Perché la figura di De André padre era (ed è) gigantesca. Un artista venerato. Di cui tanti erano (e sono) gelosissimi. Solo che quello che per gli altri è un artista, un gigante, per te figlio è soprattutto un padre. Quello di cui conosci i momenti più privati, i gesti più delicati e persino certi difetti o certe assenze.Quando Fabrizio ha scoperto di essere molto malato, aveva accanto i due figli artisti, Cristiano e Luvi. Li aveva voluti insieme sul palco in quello che sarebbe stato il suo ultimo tour. Quando papà è morto, Cristiano ha accettato (con gioia ma anche con dolore) di diventare il testimonial sonoro di suo padre. Di portare in tour solo le sue ingombranti canzoni e non le proprie. Lo slogan funzionava («De André canta De André»). La sua voce pure. Tutti sembravano felici. Ma Cristiano aveva bisogno di riaffermarsi. E grazie all’amicizia con Fabio Fazio, qualche mese fa, è tornato a Sanremo. Due belle canzoni. Un po’ di critiche positive. Poi il (quasi) nulla. E di nuovo l’enorme figura di papà con la quale fare i conti.A Paolo Jannacci, figlio di Enzo, è andata un po’ meglio. Lui è soprattutto un musicista. Uno quadrato. Che suona e arrangia da maestro. Che papà ha voluto al suo fianco per rivestire al meglio gli ultimi album. Quando Enzo si è ammalato e poi è morto, anche Paolo si è trovato sulle spalle un peso enorme da gestire. All’inizio ha sbandato un po’. Tirato per la giacca da chi lo consigliava di fare questo e quello. Da chi lo spingeva a contaminare le cose di papà col rap e chi gli consigliava di fare come Dalia col patrimonio di papà Gaber.Già: in fondo, Dalia Gaberscik è in qualche modo un faro per «i figli di» costretti a fare i conti col patrimonio artistico dei padri. Lei è un martello pneumatico. Cura l’ufficio stampa di decine di artisti, di tv e festival importanti. Ha costituito la Fondazione Gaber (consiglia la Fondazione De André), fatto ripubblicare gli album di papà, agevolato la nascita di tanti spettacoli sul Signor G. Ma soprattutto c’è lei dietro il Festival Gaber, che quest’anno sta coinvolgendo decine di comuni di tutta la Toscana. Ogni volta vi partecipano tanti artisti molto diversi. Lei ci crede davvero che esista un senso nel far cantare i brani di Gaber anche da personaggi molto lontani da lui: l’importante è che la memoria di papà non si perda. Sicuramente ha ragione lei. Tanto più che una figlia ha (quasi) sempre ragione. Ma oltre a Gaber, ci si passi il termine, nella sue eredità c’è o almeno ci dovrebbe essere il «gaberismo». Cioè, un modo di pensare «diverso». Che non fa sconti e che non cerca facili strade. E quello non si insegna facendo cantare Gaber a Mengoni, ma nelle scuole. Cosa che la Fondazione Gaber fa, ma con molta meno convinzione di tutto il resto.Anche in ambito cattolico non mancano i figli di artisti famosi. Anzi, lo spunto per questo articolo arriva proprio da un recente cd, He is Here, Benedetto canta Chieffo. Benedetto è uno dei figli di Claudio Chieffo. Se siete tra i pochi che ignorano chi sia Chieffo padre, sappiate che per una parte del mondo cattolico (vicino a Cl ma non solo) ha rappresentato quello che per certa sinistra è stato il suo quasi conterraneo Francesco Guccini. Chieffo non ha solo cantato, ma ha dato voce a un «popolo». Sempre fedele alla linea. Col sorriso e la fermezza. E con una fede. Per Guccini tra virgolette, per Claudio senza. Anche oggi, dopo la morte di Chieffo, in molte parrocchie risuonano la domenica suoi brani come I cieli Lui m’ha dato i cieli da guardar...») e Io non sono degno (« Io non sono degno di ciò che fai per me...»).Bene, a differenza di tutti gli artisti che abbiamo citato fino ad ora, da ciò che Benedetto Chieffo racconta ma anche dal suo bell’album emerge un modo completamente diverso di essere «figlio di» e musicista. Verrebbe voglia di dire che Benedetto non canta Chieffo ma se lo carica sulle spalle. Come Enea con Anchise. Di più: come uno che crede che l’amore di Dio può tutto. Anche farti in qualche modo annullare per una meta più grande. Perché onorare papà Chieffo non significa diventare una sorta di suo megafono vivente, ma ti chiede di più: riuscire a trasmettere al pubblico la sua fede prima che la sua arte. Non a caso il titolo dell’album significa “Lui è qui”. E di Lui, in questo album, ce ne sono due.
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