venerdì 2 dicembre 2022
Dall’esultanza in forma di preghiera dell’Ecuador al rosario del ct brasiliano Tite: simboli, gesti e testimonianze dell’altro mondo nella rassegna in Qatar
L’esultanza in preghiera dei giocatori dell’Ecuador dopo il gol al Qatar, il primo dei Mondiali 2022

L’esultanza in preghiera dei giocatori dell’Ecuador dopo il gol al Qatar, il primo dei Mondiali 2022 - Reuters

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Danno del tu al pallone, ma in campo lasciano intendere di avere un’altra relazione confidenziale, ben più importante. È il rapporto privilegiato con Chi li ha convocati in questo mondo per la partita della vita. Sono i devoti del pallone, un gruppo di “fedeli” quanto mai numeroso anche in questo surreale Mondiale in Qatar. Un segnale forte c’era già stato nella gara d’esordio tra i padroni di casa del Qatar e l’Ecuador. Dopo quindici minuti di gioco la stella dei sudamericani, il capitano Enner Valencia ha sbloccato il risultato su rigore. La sua esultanza si è trasformata subito in una preghiera corale con i suoi compagni di squadra: tutti in ginocchio abbracciati e poi ognuno di loro con le dita rivolte verso il cielo. Una scena dal grande impatto visivo e simbolico anche perché si è trattato del primo gol ufficiale di questa rassegna iridata. Ma è curioso che sia passata in sordina nel Mondiale delle fasce, delle magliette e delle proteste anche plateali. Sui social invece non è sfuggito l’oggetto che aveva nelle mani durante un allenamento il ct della Nazionale brasiliana Adenor Leonardo Bacchi, detto Tite. Stringeva proprio una corona del rosario, ma non è una novità perché la fede del tecnico dei verdeoro è nota. Lo ha ribadito nei giorni scorsi a GloboEsporte. com il suo padre spirituale Jeferson Mengali. Il sacerdote ha spiegato: «Tite ha sempre un’immagine di Nostra Signora di Aparecida negli spogliatoi, lascia una candela accesa e prega prima e dopo ogni partita». E ha poi svelato: «Ha in tasca un rosario che gli regalai quando era allenatore del Corinthians. Questa non è superstizione, è segno della fede, della sua religiosità. Sa di avere Dio che veglia su di lui, come veglia su tutti noi». In un torneo che vede coinvolti tutti i continenti ognuno prega nella sua lingua il suo Dio.

E a riprova che la devozione non conosce confini il tatuaggio del sudcoreano Kim Min-jae, difensore anche del Napoli, ci porta dal Sudamerica alle lontane latitudini dell’Asia. Il cristiano Kim alzando la maglietta in Qatar ha mostrato sulla schiena il suo “tattoo” artistico, ispirato al dipinto “Il trionfo del cristianesimo sul paganesimo” del francese Gustave Dorè. L’opera è uno degli oltre duecento quadri che Doré ha realizzato con scene ispirate alla Bibbia. In questa in particolare, il pittore ha voluto raffigurare Gesù e i suoi Angeli che scacciano i falsi dei adorati nell’antichità. E Cristo in primo piano svetta ora anche sulla pelle di Kim Dal sacro al profano, il pallone rotola sì, ma l’ultimo tocco, quello decisivo, è sempre di Dio. Parola di uno dei grandi protagonisti del calcio moderno a caccia con la sua Argentina dell’unico titolo che manca ancora nella sua fenomenale bacheca. È Lionel Messi, capitano della Nazionale albiceleste, che alla vigilia di Qatar 2022 ha dichiarato «Speriamo che Dio ci aiuti... Penso sempre che Dio sia colui che decide, Dio sa quando è il momento, qual è il tempo e cosa deve accadere. E sono sempre grato per tutto quello che mi è successo sia nel calcio che nella vita». Eh già, perché può anche accadere di rimanere a guardarlo sul divano di casa il Mondiale, quando invece ci contavi tantissimo. È andata proprio così al brasiliano Roberto Firmino rimasto fuori dalla lista dei convocati. Sui social non ha nascosto la sua delusione ma ha precisato: «Le cose non sono andate come immaginavo, ma posso guardare indietro e avere un cuore grato nei confronti di Dio per avermi già permesso di vivere questo sogno. Resto fiducioso che Dio abbia in serbo il meglio per me».

Del resto sarebbe troppo facile ringraziare Dio solo quando si vince o quando si ha successo. Ne è pienamente consapevole un tecnico mai banale come quello del Portogallo (a cui ha fatto vincere l’Europeo nel 2016), Fernando Santos. «Le vie di Dio sono diverse dalle nostre - ha detto in un’intervista a The Pillar - Potrebbero esserci cose che penso sarebbero buone per me, ma Dio le vede diversamente». Non ha dubbi sul fatto che ci sia superstizione anche nel calcio e che talvolta i giocatori usino la religione anche come portafortuna, ma è lapidario: «Ma non lo classificherei nemmeno come religione ». Con la qualificazione agli ottavi già in tasca, il ct portoghese però vede ben oltre il sogno della Coppa del Mondo: «Ho fede in Gesù Cristo. So che è risorto dai morti, e so cosa vuole per la mia vita, ed è quello che cerco di fare affinché un giorno anch’io possa risorgere dai morti e vivere nella Nuova Gerusalemme ». Dalle porte del calcio insomma alle porte del cielo, senza nessuna meraviglia visto che già l’allora cardinal Ratzinger scorgeva nella febbre dei Mondiali e nel potere di coinvolgimento di questo sport un bisogno «primordiale dell’umanità». Se questo gioco ci attrae è perché lo viviamo come «esercitazione alla vita e il superamento della vita in direzione del paradiso perduto».

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