venerdì 15 marzo 2024
Raccolte in volume le dieci lezioni sul delicato e controverso tema morale del pensatore ebreo francese, per il quale il vero perdono deve saper andare oltre la perdonabilità e la prospettiva umana
Il filosofo francese Jacques Derrida (1930-2004)

Il filosofo francese Jacques Derrida (1930-2004) - WikiCommons

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Se vi è un tema sul quale la teologia ha assolutamente bisogno della filosofia, osiamo affermare, questo è il perdono. Non è un caso che esso torni in superficie, di norma, quando si dialoga tra ebrei e cristiani, nel tacito (ma sempre più spesso non tacito) assunto che quella dei cristiani sia una religione del perdono, mentre quella degli ebrei no. Ovviamente si tratta di un pregiudizio antiebraico: ebraismo e cristianesimo sono entrambe religioni del perdono divino e fraterno, e al contempo sono entrambe religioni della giustizia e dell’unicuique suum. Il cristianesimo non ha il monopolio del perdono. E tuttavia una certa retorica ecclesiale enfatizza tale questione perdendone di vista la complessità sia teologica sia etico-politica.

Per questo cade a fagiolo la recente pubblicazione per Jaca Book, a cura di Vittorio Perego (che insegna filosofia in una facoltà teologica), di un esteso seminario, in dieci lezioni, elaborato da Jacques Derrida negli ultimi anni del secolo scorso. Il volume si intitola Lo spergiuro e il perdono (pagine 424, euro 32,00) e nella prima parte costituisce l’articolato e originale contributo del filosofo ebreo francese, morto nel 2004, a una delle tematiche al centro del dibattito morale da parte ebraica nella seconda metà del Novecento.

Cosa significa davvero perdonare; se il perdono sia relato e commisurato o meno alla colpa da perdonarsi; se debba essere concesso a certe condizioni oppure sia, di sua natura, incondizionato; se modifichi il passato oppure soltanto il futuro di chi lo chiede come di chi lo “offre”; se sia lecito, e fino a che punto, rifiutare il perdono; e se sia altrettanto lecito proiettare sugli affari umani una logica perdonista in fondo divina, che il mondo occidentale ha ereditato dalla Bibbia e che la saggezza greca ignorava (sebbene in queste pagine Derrida metta in discussione anche tale assunto). Insomma, del perdono si può e si deve discutere perché si tratta di una nozione e di una prassi tanto centrali nelle nostre esistenze, sociali prima ancora che religiose, quanto poco pensate e ragionate, con la conseguenza di usare il termine che le esprime spesso a sproposito o con eccessiva superficialità.

Il perdono è stato al centro della riflessione europea a partire dalla fine del secondo conflitto mondiale, specie dopo i crimini nazisti e nel solco dalla consapevolezza di cosa sia stata la Shoah. Il tribunale di Norimberga, e poi il processo Eichmann a Gerusalemme, lungi dal quietare le coscienze, hanno portato dubbi e domande morali proprio sul tema della giustizia e sull’espiabilità di quei crimini, e connessa alla loro inespiabilità sul piano giuridico, hanno risollevato la questione del senso del perdono “per andare avanti”.

Ora, con poche eccezioni (Jaspers e, anni dopo, Ricoeur), sono stati alcuni autori e filosofi ebrei a tematizzare la questione: si pensi a Simon Wiesenthal con il suo famoso romanzo-parabola Il girasole, ad Hannah Arendt e, in Francia, a Elie Wiesel, ma soprattutto a Vladimir Jankélévitch ed Emmanuel Levinas, in un dialogo, anzi in una dialettica che va al cuore del problema: tutto e sempre è perdonabile? Oppure, come è regola nelle cose umane – ossia nell’ordine della finitudine – esistono dei limiti non tanto a cosa può essere perdonato quanto alla capacità stessa degli esseri umani di perdonare. È su tali fondamentali questioni, su cui Levinas e Jankélévitch parvero contrapporsi, che si inserisce l’analisi di Derrida e la sua critica, o meglio, la sua “decostruzione” delle stesse tradizioni religiose di matrice biblica (dunque ebraismo, cristianesimo e persino islam), le quali hanno sempre legato e fatto dipendere il perdono, anche quello divino, dal pentimento del peccatore e, almeno un poco, dalla penitenza che dovrebbe accompagnarlo.

Un perdono concesso “alla cieca”, senza presa di coscienza del male commesso e delle sue implicazioni, anche politiche, e senza tentativo di una qualche riparazione, sarebbe come minimo un gesto di irresponsabilità e come massimo un non-sense. La notte in cui tutte le vacche sono nere. Ecco perché dinanzi all’irreparabile e all’inespiabile (la Shoah) Jankélévitch poteva legittimamente parlare di imperdonabile, oltre che di imprescrittibile... concetto giuridico, quest’ultimo, e mero riflesso di un abisso morale che solo la teologia potrebbe, forse, illuminare. A tanto rigore di pensiero Levinas reagiva con la propria etica iperbolica, per la quale non possiamo limitarci al principio “forte come il male è il perdono, ma non più forte”.

Al contrario, il perdono dev’essere più forte del male; deve andare oltre la perdonabilità stessa del male. Ecco dove Derrida riprende ed esplicita, da par suo, quella che chiama l’aporia del perdono, aporia tipica delle religioni monoteiste: il perdono va, deve andare – insinua il filosofo francese nelle sue lezioni – oltre la perdonabilità e le condizioni poste dalle stesse prassi religiose: si dà vero perdono soltanto dell’imperdonabile, argomenta Derrida, e solo in una totale incondizionatezza o gratuità. Anche al costo, al prezzo di sfiorare irresponsabilità (almeno in prospettiva umana).

Forse sta qui la verità intrinseca e specifica della tradizione ebraica, ab origine, là dove insegna che solo Dio può, e sa come, perdonare perché solo Dio sa conciliare giustizia e misericordia, il rigore del giudizio con la larghezza del perdono, conciliazione strutturalmente preclusa all’essere umano, e alle religioni, che su grazia e perdono non possono che restare ambigue e ambivalenti, ora ponendo condizioni precise e ragionevoli ora riconoscendo che, poste tali condizioni, il perdono si stempera in altro da sé. La coscienza di siffatta aporia, questa consapevolezza della complessità del tema “perdono”, è quel che spesso manca a molte prediche religiose, a motivo di un deficit della stessa riflessione teologica che dovrebbe stare a monte.

A riprova che la questione è venuta soffertamente accompagnando la coscienza morale dell’Occidente grazie soprattutto al mondo ebraico di lingua francese si consideri un altro recentissimo testo, di Marcello Massenzio, Maestri erranti. Il rinnovamento della cultura ebraica dopo la Shoah (Einaudi, pagine 156, euro 19,00) dove la querelle del perdono viene (ri)proposta sullo sfondo della filosofia levinasiana quale risposta ad Heidegger e alla sua indifferenza etica nonché alla di lui adesione al nazionalsocialismo. Ancora una volta ecco ri-citatato Jacques Derrida là dove porta alle estreme conseguenze l’iperbolismo morale del suo maestro Levinas, e implicitamente la forza dialettica del Talmud, che l’ebreo errante Shoshanì aveva insegnato allo stesso Levinas. Non è chi non veda come siamo al cuore del dibattito filosofico novecentesco; di più, che siamo di fronte alla credibilità stessa della filosofia alla prova della storia. A tale prova non si sottrae, non dovrebbe sottrarsi neppure la teologia (cristiana), che spesso a causa di una certa autorefenzialità diventa afona proprio sulle grandi questioni morali della storia umana.

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