venerdì 25 settembre 2020
Al Museo d’arte di Mendrisio una retrospettiva dedicata al grande maestro francese con sculture, bozzetti teatrali, dipinti, disegni e fotografie
André Derain, “Le Maquignon”, 1904-1905

André Derain, “Le Maquignon”, 1904-1905 - © 2020, ProLitteris, Zurich

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La mostra che il Museo d’arte di Mendrisio dedica ad André Derain (fino al 31 gennaio) ha una impostazione 'sentimentale'. Lo si capisce quasi subito visitando le sale dove sono esposte circa duecento opere fra disegni, bozzetti teatrali, una serie di sculture in gran parte del 1938, molti dipinti delle varie fasi con le quali si è articolata la sua sorprendente storia pittorica, cui si affiancano fotografie e libri (ne illustrò una trentina). La conferma di questa sensazione si ha leggendo il saggio con cui si apre il catalogo, scritto da Michel Charzat, uomo politico francese che tra le sue pubblicazioni ha anche un libro sull’artista, uscito nel 2015, il cui titolo suggerisce subito un orizzonte tormentato: André Derain, le titan foudroyé. Di 'titanico' Derain aveva, tanto per cominciare, la mole fisica, e l’aggettivo 'abbattuto' o 'stroncato' comunque lo si voglia tradurre, fa capire che quest’uomo era una forza granitica che la vita negli anni ha sgretolato. Charzat inquadra Derain secondo due polarità in qualche modo speculari - saturninodionisiaco e solare-crepuscolare - che racchiudono l’indole di Derain, la sua complessione psichica che pare in lotta con quella fisica e col fascino che suscitava in chi lo incontrava (pare fosse molto amato dalle donne, per esempio; alcuni testimoniano che fosse non soltanto un talento artistico naturale, ma anche come parlatore possedeva un eloquio essenziale e pungente).

Nelle foto che lo ritraggono lo si vede assumere sia pose altere sia autoironiche, come quando si fa ritrarre nei panni del Re Sole. Il suo specifico si direbbe sia la coincidenza dei contrari, e un po’ lo traduce anche nella sua arte. Però non sono del tutto d’accordo che il desiderio di non farsi incasellare in un 'ismo' o nei movimenti dell’avanguardia lo portasse a una volubilità linguistica, come di chi apre strade e poi cambia subito direzione, ma non appena altri si accodano, ecco che lui ritorna sui suoi passi, e disorienta chi lo osserva. Lo stesso schema che vuole Derain anticipatore di un richiamo all’ordine in Europa dopo la pars destruens delle avanguardie, è un po’ forzato. Tra l’altro, come ricorda Simone Soldini, direttore del Museo di Mendrisio, gli costò non poco, mentre era ancora in vita, il viaggio a Berlino nel 1941, accanto ad Arno Breker: le condizioni politiche dell’epoca, anzitutto in Francia, avrebbero sconsigliato una tale disinvoltura, ma deve essere chiaro che Derain aveva una concezione dell’arte libera da ogni ideologia e gli interessava soltanto il discorso sulla forma e il modo di arrivare a creare con l’arte una realtà più vera di quella che ci circonda e che percepiamo. In questo e nella sua dimensione antimimetica rispetto all’ideale classico, Derain è un realista di volta in volta fantastico, surnaturel (direbbe Maritain), mitico e arcaico ma con una fermezza linguistica che non permette di equivocare: nessun passatismo o tentazione retorica, una genuina attrazione per l’arte antica, la volontà di scoprire e possedere il segreto che rende eterne molte di quelle opere che hanno varcato l’orizzonte dei millenni e sono giunte fino a noi. Lo si vede chiaramente nelle sculture esposte a Mendrisio: testemaschere, volti-maschere, riferimenti ai greci che mischiano la loro linfa con l’arte primitiva e tribale, opere che comunicano l’impressione che Derain abbia fuso in esse tutto lo scibile visivo dell’umanità, fino alle Cicladi e all’arte nuragica (si vedano Femme au long cou, oppure Personnage sans menton, e ancora La femme assise). Ma nell’insieme si colgono anche le ricerche moderne, quelle di Laurens e Lipchitz, e nondimeno - ecco la tentazione scorretta - una certa ritrattistica monumentale: nella Beauté classique forse si condensano cose viste a Parigi nell’Expo del 1937 (quella dove Picasso espose, subendo le contestazioni persino dai commissari del padiglione spagnolo, Guernica).

Alla fine degli anni Trenta, dunque quando Derain aveva già dato molto della sua forza inventiva, Gertrude Stein disse di lui che era 'un inventore, uno scopritore, uno di quegli spiriti continuamente curiosi e che non sanno trarre vantaggi dalle loro invenzioni' e, paragonandolo a Cristoforo Colombo, concludeva dicendo che altri, dopo di lui, 'trarranno profitto dai nuovi continenti'. E questi continenti sono tra i più grandi conosciuti nel Novecento: l’uscita dall’impressionismo, lui che veniva da Chatou e vedeva molti dipingere en plein air, con una pittura quasi tachiste come decostruzione del colore 'atmosferico'; il fauvismo, di cui con Vlaminck e Matisse fu il fondatore; la mediazione con l’arte tribale che tra i primi portò dentro la pittura e la scultura moderne; il richiamo al mondo naïf e primitivista, meditando sulle ricerche del Doganiere; la riscoperta della natura morta come teatro esistenziale - citando Artaud, che lo aveva edotto sui segreti della drammaturgia, si potrebbe dire della sua 'natura morta' come teatro della crudeltà -, tema di cui a Mendrisio sono esposti alcuni capolavori che richiamano Chardin, ma anche gli spagnoli come Zurbarán, e illuminano la strada infine a Balthus e alle sue stanze popolate da ectoplasmiche figure di enfants e gamins. Ecco, Derain è inquieto e questo tormento gli viene, come ricorda Charzat, da una percezione dolorosa della vita; Derain ha una soglia alta, per non dire acuta della vita, che coincide con quella del dolore; e per questo quando la sua pittura parla, se anche non sanguina si percepisce sempre il coagulo che si forma sui margini delle forme rendendole simili a cicatrici. Malinconia, scrive Charzat; è vero. Romano Guardini trattando la questione della malinconia e interpretandone il senso nel vocabolo tedesco Schwer-Mut, lo distingueva dall’'umor nero' e lo traduceva come 'umor grave' ovvero qualcosa che incombe sull’anima e genera quel senso di prostrazione interiore da cui scaturiscono malessere e pensosità. Ecco, dice Charzat, Derain è stato toccato dal demone della bile nera e non uscirà più da quello stato che lo porta a essere intuitivo delle cose, della loro profondità assoluta, ma dove si sente nel colore il malessere che gli procura questa sua 'veggenza'. Era infatti attratto tanto dal mondo di sopra, come dal mondo di sotto.

Forse a ridurlo al limite che lo ha foudroyé fu proprio, alla fine della vita, una eclissi dell’aurora, dove il sole si fece via via più nero. Il mondo di Derain, e la sua figura mi ricorda certe atmosfere e personaggi divertenti ma malinconici nei romanzi di Queneau - in particolare, di Zazie nel metrò. Nella mostra di Mendrisio si percepisce una stratificazione di sguardi e di tempi, che nasce dal lavoro critico. Il cosiddetto periodo 'gotico' o 'bizantino' - che era stato preso in esame più specificamente nella mostra che Parigi ha dedicato nel 2017 a Derain negli spazi del Beaubourg - si allunga fino al cubismo e ha dato frutti come il Paesaggio di Camiers, capolavoro di decostruzione del mondo cezanniano e di ricomposizione volumetrica che anticipa soluzioni analoghe nel paesaggio di Carrà. Siamo appunto di fronte a un talento che aspira a ritrovare la realtà dentro composizioni che sfiorano l’astrazione o fanno della pittura una costruzione geologica: Paesaggio del Lot e Il Calvario e la chiesa di Vers (nel Lot). Nel disegno, prima della guerra, cerca la libertà che apre l’immaginazione ai poteri dell’occhio; ma dopo l’esperienza al fronte, arruolato in artiglieria, tutto assume uno spessore diverso; la catastrofe senza senso lo spinge a dare corpo alla luce e a rivelarne la forza come materia vera e propria, i paesaggi sono di volta in volta stratificazioni di masse cromatiche, come nella Vista di Villeneuve-les-Avignon (1930 c.); eppure nello stesso periodo troviamo tele come Chapelle Saint-Sixte à Eygalières che richiama una pittura più primitiva e quasi ispirata a visioni del Medioevo; ma subito dopo ecco un paesaggio del 1932 che si dirige da tutt’altra parte, anche come tavolozza, e fa pensare alle sprezzature pittoriche dei giapponesi, ma con una libertà compositiva che testimonia il temperamento anarchico e insoddisfatto di Derain.

Nei nudi degli anni Venti e Trenta emerge la fatidica ricerca di classicità che ha creato molti malintesi ponendolo fra i precursori del richiamo all’ordine. Ma poi dalla metà degli anni Trenta fino ai Cinquanta sembra tornare a una dimensione 'ingenua', o propriamente terragna e naïve, che andrebbe studiata con più pazienza per ricavarne anche il senso di umanità che vi è sepolto. Come scrivevo nel 2017 a proposito della mostra di Parigi, Derain non sembra tanto riflettere idealmente la figura di Cristoforo Colombo, quanto quella di Mosè; è lui che porta fuori dalla schiavitù i suoi compagni, ma dubita di ciò che fa, si lascia prendere dal demone meridiano e mentre i suoi amici entrano nella terra promessa lui fa solo tempo a intuirla, senza però goderne il possesso che gli spetta di diritto.

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