sabato 20 novembre 2021
Lo stato africano, pur tra le difficoltà, mostra come sia possibile trovare una strada tra dittature e corruzione nel Sud del mondo: con la difesa, anche tramite i media, delle libertà civili
Una madre con i figli in Malawi

Una madre con i figli in Malawi - Alexandria Riboul, USAID / Pixnio

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"Sono un missionario da trent’anni in Malawi. Dopo aver aperto chiese e scuole su tanti altipiani della savana, mi è rimasto un sogno. Devo costruire una prigione. Il sistema giudiziario del Malawi è uno dei rottami del colonialismo che ancora intasano tanti Paesi africani. Inoltre per la cultura africana violare la legge del villaggio vuol dire essere scomunicato: da qui la rassegnazione illimitata a qualunque cosa ti possa poi succedere. Il carcere in Malawi inizia prima ancora che ci arrivi, nelle celle di polizia. Accovacciati a terra, legati mani e piedi, a due a due, i carcerati vengono portati dal magistrato anche dopo due anni dall’arresto… Ma c’è spazio per un modello diverso di prigione e le autorità carcerarie hanno inviato il loro personale per corsi di formazione per un progetto alternativo alla punizione e al degrado. Ci saranno le costruzioni, ma anche la fattoria e il laboratorio".

Così scrivevo dieci anni fa. Oggi in Malawi, striscia di terra che per la tranquillità della sua gente e dei suoi paesaggi è definito «cuore caldo dell’Africa », è nata la Half Way House. È una struttura in cui i carcerati trascorrono l’ultimo anno della loro condanna e si preparano a tornare a casa, finalmente riconciliati con sé stessi e con in mano un mestiere che li renda autosufficienti, rinati uomini e donne, capaci di una nuova vita. Ora che il primo sogno si è realizzato, resta da trasformare tutto il sistema giudiziario e di fare di ogni prigione altrettante Half Way Houses, strutture in cui a ogni carcerato sia data la possibilità di ricominciare, che è poi l’unica cosa che conta dietro alle sbarre e l’unica capace di un vero contributo per un umanesimo, un ubuntu capace di fare del mondo una sola capanna.

Lo stesso miracolo si è ripetuto ancora. E lo racconto perché l’ho visto. Missionari e volontari, insegnanti e dottori, predicatori e commercianti, diplomatici ed eserciti di pace e di guerra. Siamo una grande tribù che ha raggiunto tutti i villaggi del continente africano. Siamo arrivati, perché inviati o per passione, come David Livingstone che combatteva la tratta degli schiavi proprio nell’antico Nyasaland, l’attuale Malawi. Siamo venuti per condividere una storia, per insegnare e impiantare fondamenta per lo sviluppo. Oppure per contratti di lavoro o a caccia di materie prime, come la Cina di oggi. Tanti sono anche rimasti.

In questa lunga carovana c’è anche questa mia piccola storia cominciata nel 1976, quando mi sono ritrovato dentro alla savana, a passare di villaggio in villaggio con un Vangelo da annunciare. Sul continente Africa era da poco giunto il vento dell’indipendenza che aveva spazzato via i lunghi anni del colonialismo. Sfortunatamente in Malawi si era imposta una dittatura destinata a durare ancora per trent’anni, anni fatti di silenzio e di paura, quando l’opposizione finiva letteralmente in pasto ai coccodrilli. Mancava qualsiasi spazio di dialogo: c’era un’unica stazione radio, un giornale, un solo partito ed elezioni a scheda unica.

Questi anni che avevano ammutolito anche le chiese erano tutti spesi nel tentativo di diventare «la voce di chi non aveva voce». Era come giocare a rimpiattino, nascondendo la mano che aveva tirato il sasso. Da una innocentissima stamperia che pubblicava testi di scuola o traduceva i discorsi di papa Giovanni Paolo II che nei suoi pellegrinaggi era giunto fino a qui, era bastata la pubblicazione della Lettera pastorale dei vescovi, l’8 marzo 1992, per iniziare una transizione pacifica che si meriterebbe il premio Nobel se solo i grandi della Terra fossero capaci di ascolto.

Era una strada diversa, una strada che aveva finito per spiazzare gli inviti alla guerriglia. Non un cammino facile, anzi irto di ostacoli, come quando gli squadristi di partito finirono per incendiare la stamperia stessa. Ma proprio da quelle ceneri era scoppiata la democrazia come la storia più bella di questi ultimi anni del Malawi. Libertà di stampa con una grande espansione di stazioni radio e TV e la possibilità di pensare ad alta voce. Un esempio possibile di cambiamento per l’Africa intera, con la vecchia stamperia di Balaka diventata oggi, con il nome di Montfort Media Centre, il più importante centro multimediale del Paese.

Finalmente libero, a una spanna dalla possibilità di sconfiggere la sua povertà infinita, il Malawi ha finito invece per fare i conti con una difficile involuzione, segnata da una pervasiva corruzione. A ogni livello, ma soprattutto a quello di Stato, dove tutto e tutti hanno un prezzo. La memoria del passato diventa quindi "pericolosa", ma anche in grado di portare un Paese a non subire i brogli elettorali, ad annullare e rifare le elezioni politiche, cambiando il presidente, fatto quasi senza precedenti in Africa.

E questo quasi in silenzio, senza che il mondo se ne accorgesse, ed era l’anno 2020 in Malawi. Nel periodo della pandemia e della campagna di prevenzione contro il Covid-19, anche l’ultimo villaggio della foresta ha imparato a lavarsi le mani e portare la mascherina. Ma una delle indicazioni presentate anche in Africa come necessarie è stata sconfitta fin dall’inizio: il distanziamento fisico. Dal bambino a scuola al giovane allo stadio, dai fedeli di tutte le moschee e cattedrali fino alle donne al mercato, sempre e tutti gli africani vivono ancora assieme in un assembramento fisico tale da assomigliare a un solo corpo che respira e si muove a nugoli, come i piccoli pesci del lago e gli stormi di uccelli nel cielo. Ripartire dal comandamento dell’appartenenza allo stesso villaggio, al medesimo colore scuro della pelle, finalmente vestito con orgoglio, alla fede negli spiriti degli antenati comuni.

Se le contraddizioni sono ancora evidenti, se la corruzione è diventata così potente da potersi mangiare un Paese intero, ci sono enormi voci di speranza. Una tra tutte: l’Unione Africana, che raduna tutti gli Stati e oltre un miliardo di abitanti del continente africano, ha scelto come tema dell’anno 2021 Arte, cultura e tradizioni, eredità tradizionale comune e per l’Agenda 2063 ha promosso «l’importanza di una forte identità culturale, valori condivisi ed etici».

Facendo uso delle nuove tecnologie di comunicazione, l’Africa vuole salvare le sue tante lingue, riscoprire la propria identità culturale, «riappropriandoci di quanto è veramente nostro». I villaggi diventano centri culturali e veri santuari verso cui dirigere i pellegrinaggi del continente. L’arte ha salvato l’Africa per millenni e ha mitigato le sfide quotidiane. È una cultura che non solo parla del passato, ma aiuta a sognare un domani diverso. Lo chiamano Rinascimento. E sta avvenendo oggi, sulle sponde del Mare Nostrum, dove vorremmo costruire muraglie e ributtare a mare anche piccolo scialuppe.

C’è una sfida che sta nascendo e ha un nome antico: il Sinodo della Chiesa nel mondo. Un cammino che viene da lontano, dalle piccole comunità di base, dai villaggi dell’Africa, vere scuole di sinodalità. Nell’ascolto nasce il cammino. L’Africa non fa notizia? Io l’ho visto il miracolo dell’incontro. Se solo potessimo vedere e sentire. Se solo accettassimo di danzare una notte intera. Noi i non vedenti dello spirito, finalmente guariti.

Il testo è la prefazione di padre Piergiorgio Gamba al volume L'Africa non fa notizia (pagine 158, euro 14, disponibile dal 25 novembre) scritto da padre Giulio Albanese e dai giornalisti di Avvenire Paolo Alfieri e Paolo Lambruschi, nuovo titolo della collana "Pagine Prime" realizzata da Vita e Pensiero in collaborazione con Avvenire.

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