sabato 25 settembre 2021
Al festival svizzero il regista premio Oscar Justin Chon con l'inquietante storia vera di un coreano adottato da bambino da una famiglia statunitense rovinato da una spietata burocrazia
Una proiezione al Festival del cinema di Zurigo

Una proiezione al Festival del cinema di Zurigo - Ansa/Epa

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Il dramma di un uomo che si scopre senza patria in un Paese ormai a corto di seconde possibilità e sempre più ostile al diverso è al centro del melodramma Blue Bayou diretto e interpretato da Justin Chon, il regista premio Oscar per Minari. Nel suo nuovo lavoro, presentato alla 17esima edizione del Zurigo Film Festival, in programma dal 23 settembre al 3 ottobre, il regista interpreta il coreano Antonio LeBlanc, arrivato negli Usa a 3 anni dopo essere stato affidato a una famiglia adottiva e ora, nonostante qualche trascorso criminale, vive a New Orleans ed è l’amorevole marito di Kathy (interpretata da Alicia Vikander), premuroso padre della figlioletta di lei, Jessie, e in procinto di vedere nascere la sua bambina.

Un giorno al supermercato, durante un controllo di polizia che coinvolge anche l’ex marito di Kathy, furioso perché la piccola Jessie si rifiuta di vederlo, Antonio viene arrestato, e a causa di un vizio di forma della sua adozione, avvenuta trent’anni prima, rischia l’espulsione. Costretto a scegliere se tornare spontaneamente in Corea per cercare una soluzione legale oppure appellarsi a un giudice americano, Antonio potrebbe essere deportato senza possibilità di appello.

Il film non solo racconta una storia vera (il vero Antonio Le Blanch compare in una foto prima dei titoli di coda), ma denuncia un fenomeno tanto assurdo quanto frequente: le espulsioni dagli Usa di migliaia di persone adottate trenta, quarant’anni fa da famiglie americane che tuttavia si vedono negare la cittadinanza e vengono rispedite nei paesi di origine ai quali nulla più li lega, neanche la lingua. Attraverso dunque la lotta di una famiglia contro le scarse risorse, la difficoltà a trovare lavoro e una disumana burocrazia – Antonio fa il tatuatore, vorrebbe di più, ma ai colloqui di lavoro viene costantemente umiliato – il regista abbandona la leggerezza del precedente Minari, che raccontava di una famiglia coreana alle prese con le sfide dell’America rurale, per tracciare l’affresco cupo di un Paese aggressivo, crudele e ipocrita, regolato da leggi spietate e ingiuste, privo ormai di sogni e opportunità, ostaggio di poliziotti brutali e abusi contro i diritti umani più elementari.

Il film non racconta però la battaglia legale per rivendicare i diritti dello sfortunato Antonio a restare con la propria famiglia in una nazione dove vive ormai da oltre trent’anni, ma il viaggio interiore del protagonista che, straniero a casa propria, comincia a fare i conti con un passato affollato di ombre, con una madre naturale che lo ha abbandonato dopo aver tentato di annegarlo ancora neonato, con una madre adottiva con la quale le cose non sono andate bene, con le proprie radici che cominciano a emergere prepotentemente sollevando dubbi e conflitti sulla propria identità e appartenenza.

Se il materiale a disposizione è potentissimo, il regista mette troppa carne a fuoco perdendosi in sottotrame che finiscono per confondere lo spettatore, ma resta efficace l’urgenza della denuncia politica e il dramma di una famiglia che rischia di essere spazzata via da una legge irrispettosa anche delle esigenze dei minori. Il titolo del film è quello di una canzone di Roy Orbison. Il Festival di Zurigo inoltre renderà omaggio a Paolo Sorrentino con un premio e una retrospettiva di tutti i suoi lavori, compreso È stata la mano di Dio, ma saranno presentati anche Tre piani di Nanni Moretti e A Chiara di Jonas Carpignano. E mentre ci si prepara alla grande première del nuovo film di James Bond, No Time to Die, in programma martedì 28, oggi i riflettori sono tutti per Sharon Stone, protagonista di un incontro con il pubblico.

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