La Meridiana tetracycla, l’orologio solare quadriconcavo nei giardini del Quirinale eseguito da Francesco Borromini e Agostino Radi - Roma, Palazzo Barberini
Con l’eclisse lunare del 27 agosto 1635, un esperimento tentato da due scienziati amici di Galileo, Pierre Gassendi e Nicolas-Claude Fabri de Peiresc, ebbe la sua occasione propizia. I due studiosi francesi intendevano misurare le distanze terrestri attraverso triangolazioni con la Luna. Si erano avvalsi, quel giorno, di una rete di collaboratori sparsi in alcune città del mondo, e in particolare italiane, che offrirono di ritorno i dati raccolti durante quella osservazione simultanea. Nel momento di dare una strutturazione e trarre delle conferme del materiale ricevuto, i due studiosi si trovarono nella necessità di disporre di una mappa dettagliata del nostro satellite.
Nel 1610 Galileo, mettendo a frutto le osservazioni col cannocchiale, aveva realizzato su un solo foglio sei fasi della Luna, con la tecnica ad acquerello e inchiostro marrone (che adoperò poi per illustrare il Sidereus Nuncius), dove prestava particolare attenzione ai crateri e ai dislivelli, la qualità del referto era tuttavia appena accettabile. Col tempo fu chiaro che per continuare lo studio occorreva qualcosa di più esatto. E fu così che, due decenni dopo, nel gioco scientifico entrarono le doti artistiche di Claude Mellan, uno dei maggiori incisori del suo tempo, che usava ancora il bulino sebbene ormai molti prediligessero l’innovazione dell’acquaforte, francese pure lui.
Venne contattato dai due scienziati e tutti e tre partirono per la cima del monte Sainte Victoire in Provenza – sì, quello che poi diventerà oggetto dell’attenzione del pittore Paul Cezanne – dove restarono per quasi due mesi nell’autunno del 1635 a studiare le fasi lunari e a stenderne, per così dire, il ritratto, termine che lo storico dell’arte Massimo Pulini ha usato per un suo breve ma appassionante saggio, Il primo ritratto della Luna e le incisioni impossibili di Claude Mellan (2021).
Da quelle notti trascorse in cima al monte, al freddo dell’imminente inverno, tutt’è tre col naso rivolto all’insù, scaturirono tre incisioni che Mellan eseguì considerando l’osservazione diretta e le informazioni raccolte dai due scienziati, donandoci quella che, ancora oggi, è una testimonianza del satellite che si avvale dell’azione congiunta di arte e scienza. In queste settimane, sia il foglio di Galileo sia il “trittico” di Mellan figurano nelle stanze d’apertura della bella mostra La città del Sole. Arte barocca e pensiero scientifico nella Rona di Urbano VIII, in corso a Palazzo Barberini fino all’11 febbraio, a cura di Filippo Camerota e Marcello Fagiolo (catalogo Sillabe).
Se il “ritratto” dipinto da Galileo è di una qualità non straordinaria, ma sufficiente a percepire la superficie corrugata del suolo lunare grazie all’ombra frastagliata che corre sul confine della parte nascosta facendo intuire i crateri disseminati sul terreno lunare, questa approssimazione del disegno galileano, evidentemente, come spiega Camerota, doveva essere frutto di una ricostruzione dello scienziato sulla base di schizzi eseguiti durante le osservazioni col cannocchiale, che gli consentiva soltanto una visione parziale della Luna. È per questo che vent’anni e più dopo Galileo, Gassendi e Peiresc – adoperando un cannocchiale che era stato loro donato dal pisano – decisero che si doveva prendere il toro per le corna e disporre infine di una mappa più precisa della Luna nelle sue fasi.
Tutto questo fu possibile perché i partecipanti all’impresa appartenevano a quella sorta di fronda in odore di eresia che aveva visto già la condanna di Galileo nel processo del 1633 (all’epoca il pisano scrisse a Peiresc definendo «sempre più soave la fortuna del mio infortunio, et in certo modo benedico le persecuzioni dei miei nemici, senza le quali mi sarebbe sempre restata occulta la parte più da stimarsi dell’humanità…»). A proposito della vista del globo lunare e della sua superficie tempestata di crateri, in mostra si rimanda anche all’affresco della Donna dell’Apocalisse di Santa Maria Maggiore dove, ai piedi della Vergine, anziché il solito quarto di Luna che rimanda a una falce vediamo il nostro satellite come un globo incompleto dove il degradare dell’ombra mette in risalto la superficie coi crateri e i dislivelli.
Siamo nel 1612, due anni dopo le descrizioni di Galileo nel Sidereus Nuncius: il dipinto era stato commissionato in contemporanea a Ludovico Cigoli da Paolo V e Galileo, alla scoperta dell’affresco, aveva ricevuto le congratulazioni di Federico Cesi che notava per lettera come il pittore avesse tenuto conto delle scoperte dello scienziato. Mellan negli anni Venti del Seicento, soggiornando a Rona, aveva eseguito i ritratti a disegno sia di Galileo sia di Urbano VIII, alias Maffeo Barberini, salito al soglio pontificio nel 1623. Se c’è la Luna, non può non esserci il Sole.
E all’epoca era molto dibattuta la questione dell’eliocentrismo e della perfezione dei corpi celesti di stampo aristotelico (la scoperta dei crateri lunari fu, quindi, una doccia fredda per il partito più tradizionalista e contrario a Galileo, in particolare i gesuiti). La mostra, facendo propria l’espressione di Tommaso Campanella, vede nel pontefice il Sole di una Città eterna che dopo il giubileo del 1600 aspira ancora dopo decenni, con l’imporsi dello stile barocco e grazie anche all’enorme genio di Bernini, a rimanere appunto il centro del mondo. Tutto quindi, grazie anche alla capace celebrazione del potere ecclesiastico da parte del Barberini, sembra interpretare la figura di Urbano VIII col simbolo celeste che rimanda alla regalità – quello che avverrà, sia pure secondo logiche diverse, con Luigi XIV, che dopo la morte del cardinal Mazzarino assumerà pieni poteri e li fonderà in un’aspirazione dichiarata: « L'État, c'est moi!».
Se la grandeur è marchio francese, non si deve però dimenticare che mentre le sue più grandi opere architettoniche e artistiche sono in lavorazione il cavalier Bernini va a Parigi, è il 1665, e viene un po’, come si suol dire, snobbato, pur con tutti gli onori. Segno che il regno del Sole di Francia voleva mandare in eclissi quel Sole della Roma papale che aveva regnato fino a 20 anni prima e di cui ancora si allungavano i raggi? Mostra molto ben ripartita a partire dal simbolo papale delle Api (Barberini),suddivisa in tre sezioni dedicate rispettivamente agli scienziati osservatori del cielo, agli artefici che misurano il tempo, da cui la Meridiana tetracycla, l’orologio solare quadriconcavo nei giardini del Quirinale eseguito da Francesco Borromini e Agostino Radi; le Tavole sciateriche del gesuita Athanasius Kircher (uno dei talenti esoterici e visionari di quest’epoca, molto presente nel percorso espositivo) costruite a partire dalla gnomonica e dallo studio degli orologi solari; i due globi, quello terrestre e quello celeste di Matthäus Greuter; l’obelisco portato dall’elefante che figurava già un secolo prima nell’Hypnerotomachia Poliphili e che rivediamo in un disegno di Bernini.
Infine, ultima sezione, la città e gli architetti, che portano a sintesi il dono “matematico” inciso dalla natura nelle api, grandi costruttrici di spazi dalle geometrie perfette: se il Palazzo Barberini diventa la “reggia del Sole”, il “palazzo alveare” o l’architettura intellettualizzata come “tempio della Sapienza” e della memoria, ecco che lo straordinario levita negli spazi complessi di Borromini a Sant’Ivo, fra forma ovale e obliqua (come anche in altri disegni del ticinese), ma poi il momento barocco entra nella metamorfosi e delinea visioni “inafferrabili” che si svelano nella loro sapienza rappresentativa ponendosi da un particolare punto di vista, si tratta dell’anamorfosi, come quella di Trinità de’ Monti, dove arte e scienza confondono i loro geni; ed è in quest’ultima parte che le architetture scenografiche di Bernini, il mago inarrivabile sia del mondo durevole sia di quello effimero, realizzano probabilmente il senso stesso del Sole come simbolo che regna con la sua luce abbagliante e illusionistica. Alla fine, il miracolo del barocco sta proprio in una volontà di unire l’arte e la scienza come meraviglia applicata a qualcosa che funziona quale evocazione del segreto del mondo. Un passo decisivo verso una diversa idea della nostra stessa modernità.