martedì 28 settembre 2021
I 150 anni dalla nascita della scrittrice premio Nobel sono l’occasione per riscoprirne l’intensa vena creativa fra Verismo e Decadentismo, segnata dal suo essere radicalmente donna e mai femminista
Grazia Deledda nel 1926, l'anno in cui vinse il premio Nobel

Grazia Deledda nel 1926, l'anno in cui vinse il premio Nobel - WikiCommons

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Nasceva centocinquant’anni fa Grazia Deledda: un anniversario importante, per celebrare il quale il ministro della Cultura, Dario Franceschini, ha istituito all’inzio di questo mese un Comitato nazionale, presieduto dallo scrittore Marcello Fois. D’altra parte, Deledda non è una scrittrice tra tante: è stata la prima donna italiana a vincere un Nobel, nel 1926, e la seconda italiana a vincerlo per la Letteratura (dopo Giosué Carducci, che l’aveva ottenuto vent’anni prima). Nata a Nuoro nel 1871, quinta di sette figli, compie pochi studi regolari (che si interrompono alla quarta elementare), formandosi sostanzialmente da autodidatta. Molto giovane comincia a scrivere racconti, che manda a riviste popolari. Grazie a questa attività di collaborazione giornalistica le si aprono nuovi orizzonti (entra in relazione epistolare con diversi letterati, tra cui lo scrittore siciliano Luigi Capuana), sìcché Nuoro le risulta sempre più stretta. Così si descrive in una lettera scritta all’età di ventun anni: «Una ragazza che rimane mesi interi senza uscire di casa; settimane e settimane senza parlare ad anima che non sia della famiglia; rinchiusa in una casa gaia e tranquilla sì, ma nella cui via non passa nessuno, il cui orizzonte è chiuso da tristi montagne: una fanciulla che non ama, non soffre, non ha pensieri per l’avvenire, non sogni né buoni né cattivi, non amiche, non passatempi, nulla infine, nulla, e dimmi come può essa fare a non annoiarsi. I libri... i giornali... il lavoro... la famiglia! I libri e i giornali sono i miei amici e guai senza di loro». Le difficoltà ambientali, unite a un certo clima di pregiudizio verso la sua nascente vocazione letteraria (una donna che scriveva non poteva essere considerata del tutto 'onesta'...), determinano in lei il proposito di fuggire dall’ambiente sardo. Ciò può realizzarsi soltanto attraverso l’unica soluzione possibile per una donna del suo tempo, vale a dire il matrimonio. Nel 1899, ospite di un’amica a Cagliari (era la prima volta che lasciava Nuoro), conosce un impiegato statale di Roma, Palmiro Madesani, che sposerà l’anno seguente e dal quale avrà due figli. Si trasferisce così nella capitale, dove intreccia contatti e relazioni che le permettono di ottenere visibilità e apprezzamenti critici sempre più consistenti. Ma anche a Roma, Grazia conduce una vita austera, lontana dalla mondanità salottiera, chiusa nel ristretto cerchio di famiglia e lavoro, scrivendo e pubblicando romanzi e racconti con una cadenza quasi annuale. Quando nel 1928 riconosce i primi segni della malattia (un tumore) che otto anni più tardi l’avrebbe condotta alla morte, li tiene nascosti a tutti, persino ai figli, senza mai smettere di lavorare. Pur essendosi Grazia Deledda formatasi in seno a una famiglia discretamente abbiente, la sua vicenda personale rispecchia quella che era la condizione femminile, non soltanto in Sardegna, ma in quasi tutto il resto d’Italia, all’indomani dell’Unità nazionale. Nell’intera opera deleddiana non mancano, anzi sono frequenti, gli accenni alla situazione della donna in quegli anni, ma sono pressoché assenti riferimenti politicamente consapevoli alla questione femminile. Contrariamente a un’altra scrittrice sua contemporanea - la piemontese Sibilla Aleramo, che nel 1906 pubblicava Una donna, libro di rivolta e di presa di coscienza di genere - Deledda non fu mai impegnata sul piano del femminismo e delle sue istanze. L’unico risarcimento esistenziale da lei cercato è stato per via letteraria: è come se attraverso la scrittura avesse cercato di riscattarsi da quella posizione di subalternità a cui la società del tempo in gran parte ancora confinava le donne. Nella sua produzione letteraria, i critici tendono a distinguere due fasi. Dopo l’esordio del 1892 con il romanzo Fior di Sardegna, la prima notorietà viene alla Deledda da Anime oneste (1895), cui seguono, tra gli altri titoli, Elias Portolu (1903) e Cenere (1904), L’edera (1908) e Canne al vento (1913), da molti considerato il suo capolavoro e che lei stessa definiva il proprio libro preferito. In questa prima fase della sua opera, di sapore veristico, campeggia il motivo dell’ansia di riscatto dal male (un riscatto in realtà impossibile), inserito in una visione religiosa e a tratti cupa della vita. A fare da sfondo è la rappresentazione della natura e del paesaggio della sua Sardegna, un ambiente barbarico in cui domina una spiccata tendenza al meraviglioso e al miracolistico. Con le novelle della raccolta Chiaroscuro (1912) e con i romanzi successivi - tra i quali La madre (1920, di cui proprio oggi esce una nuova edizione per i tipi di Alessandro Polidoro Editore, con una prefazione di Veronica Galletta e come postfazione un saggio di D.H. Lawrence, pagine 158, euro 13), Il Dio dei viventi (1922), Annalena Bilsini (1927), Cosima (romanzo autobiografico, uscito postumo nel 1937) - si delineano i tratti distintivi del secondo periodo della scrittrice: affrancatasi ormai da ogni regionalismo, Deledda fa propri certi aspetti della sensibilità e del gusto tipici del Decadentismo. Fra gli autori da lei prediletti, del resto, non vi sono soltanto Verga e i veristi, ma anche i romanzieri russi (da Tolstoj a Dostoevskij) e lo stesso D’Annunzio. La Sardegna, tuttavia, non viene del tutto abbandonata. Nell’ultimo periodo della sua attività, la scrittrice la presenta però in termini meno realistici, come una sorta di luogo mitico e archetipico di tutti i luoghi. La terra natìa diventa così metafora di una condizione esistenziale, quella 'primitiva', che la cultura del Novecento cercherà di recuperare come soluzione all’angoscia e al disagio derivanti dal difficile rapporto con la società industriale e dalle conseguenze del progresso scientifico. Anche in questo sta una ragione di attualità di Grazia Deledda, narratrice sospesa tra Verismo e Decadentismo, ma forse soprattutto - pardossalmente, proprio attraverso il suo personalissimo sguardo rivolto al passato proiettata nel futuro.

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