venerdì 15 giugno 2018
In una grande rassegna al Louvre duecento opere del pittore romantico tanto caro a Baudelaire. Sul fronte del racconto religioso, però, il grande artista non riuscì mai a essere incisivo
Delacroix e quel sacro che gli resta incompreso
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I curatori della mostra che il Louvre dedica a Eugène Delacroix non hanno fatto una mostra e poi imbastito in un catalogo le loro riflessioni; Sébastien Allard e Côme Fabre, funzionari del grande museo (il primo dirige il dipartimento dei dipinti, il secondo ne è uno dei conservatori) hanno fatto il contrario, hanno scritto una monografia sul pittore che occupa oltre trecento pagine del catalogo e poi, come solo possono fare al Louvre con le loro collezioni smisurate e il prestigio di cui godono, hanno raccolto e allestito negli spazi espositivi circa duecento opere fra dipinti, disegni, studi e documenti, che fanno di questa mostra una delle maggiori mai dedicate al pittore romantico.

Poco più di quarant’anni dura la carriera di Delacroix (1821-1863), che la mostra suddivide in tre “sezioni” cronologiche: il primo decennio come «conquista della gloria individuale in ogni genere» per mostrare le possibilità espressive e narrative del mezzo pittorico; la seconda, che ha come tema i grandi cantieri delle commissioni pubbliche, lungo un arco ventennale che va dal 1835 al 1855, e l’influenza che ebbero sulla pittura da cavalletto di Delacroix; infine, l’ultimo decennio, dove la forte coscienza storica si misura con le evoluzioni del realismo. Una mostra pensata per riaprire il “dossier Delacroix” scrivono i due curatori. Fatto singolare, nell’ottica di un rilancio della riflessione sull’opera del pittore, la sostanziale indifferenza verso uno dei temi storici emersi negli ultimi anni, ovvero il rapporto di Delacroix con la cultura classica antica, affrontato nel 2016 in una mostra allestita negli spazi del museo intestato al pittore e curata dalla direttrice Dominique de Font-Réaulx, che invece nel catalogo della mostra del Louvre firma un breve saggio su Delacroix e l’Esposizione universale del 1855 – dove all’artista era intestato un padiglione (che accoglieva però anche altri pittori) – che affronta in particolare l’influenza che esercitarono l’uno sull’altro il pittore romantico e il padre del realismo, Courbet.

Allard e Fabre aprono la breve introduzione al loro lungo saggio con una citazione da una lettera di Delacroix a Baudelaire del 27 giugno 1959: «Voi mi trattate come si trattano soltanto i grandi morti». Il poeta, che dal 1845 ha eletto Delacroix a sublime pittore della modernità per la sua capacità di risolvere tutto nel colore, elabora il suo giudizio sul Salon 1859 - il direttore della “Revue française” lo aveva pregato: «Sia breve, faccia un rendiconto sintetico… » e Baudelaire stende, in quattro puntate e nove punti, un discorso critico di quasi settanta pagine –; nel quinto punto, dedicato a «religione, storia, fantasia», il poeta celebra l’immaginazione di Delacroix e la sua sensibilità nel rendere i temi della religione cristiana e, rivolgendosi al direttore del giornale, enfatizza una Deposizione nel sepolcro del pittore francese chiedendo: «Crede veramente che Tiziano sarebbe stato capace della stessa invenzione?».

Giustamente Delacroix si sente celebrato come se fosse già morto. In un brano precedente, Baudelaire affermava: «come l’immaginazio- ne ha creato il mondo, così essa lo governa». Sintesi perfetta del romanticismo. Ma è proprio nel versante religioso che la pittura di Delacroix difetta nell’immaginazione, ovvero di pathos e, dopo la visita a questa mostra del Louvre, ci rende difficile dare ragione a Baudelaire. Se dovessi motivare perché la pittura “sacra” di Delacroix si colloca su un orizzonte dove non aleggia alcun senso della Provvidenza (nonostante i temi figurativi cristiani) credo che la ragione sia proprio nella forza della mitopoiesi romantica che cancella ogni devozione e riduce il mistero cristiano a un sentimento dell’arcano e della forza tremenda e fascinosa della natura. Che differenza sostanziale c’è fra il Cristo e la tempesta sul lago di Tiberiade, il Ratto di Rebecca, l’Indiana azzannata da una tigre o La caccia ai Leoni? Nessuna, sostanzialmente, perché il tema fondamentale non è nella rappresentazione, ma in quella particolare simbiosi di materia, colore e stile che rende emblematico Delacroix del modo di sentire e di concepire la vita nella cultura romantica. Uno scontro di forze di natura, dove l’uomo si scopre in balìa degli elementi naturali, del regno animale, del mondo terrestre e acquatico, così come il tema della fiducia o meno nel proprio Salvatore durante la tempesta è soverchiato dalla forza ingovernabile della natura.

L’Annunciazione di cui parla Baudelaire, dove l’angelo non si presenta alla Vergine da solo ma è accompagnato da altri due messaggeri che tengono aperto il sipario della rappresentazione, sarà anche un’invenzione pittorica, ma è un espediente teatrale che nasconde l’incomprensione da parte di Delacroix del mistero sacro. Ho provato a sommare i dipinti esposti dove compare il Cristo crocifisso o morto oppure l’Homo patiens, e ne ho contati almeno quindici, ma nessuno che mi abbia dato l’emozione dei volti di Cristo dipinti da Rembrandt ed esposti in una mostra di qualche anno fa sempre al Louvre. Delacroix – a dispetto del suo nome – non riesce a superare la soglia che rende la sofferenza di Cristo totalmente altra rispetto a quella umana (proprio perché nel sacrificio di Cristo è contemplata anche – tema di grandi disquisizioni teologiche ancora aperte – la sofferenza di Dio). Ben diverso è il risultato quando Delacroix si misura col mito e cerca di renderlo umano, di incarnarlo: così il bozzetto per il grande quadro di Medea è davvero la rappresentazione della “Madre crudele” che è disposta a sacrificare l’amata prole per ferire Giasone, traditore e portatore del diritto maschile: una maschera di orrore, il volto di Medea sfigurato e non più “umano”; e i due corpi dei figli, sono ridotti all’informalità di grossi feti che rientrano nel grembo materno. Quando dal bozzetto si passa al quadro realizzato, di grandissime dimensioni, quel sentimento sembra però stemperarsi in una tragedia finta, dove il coltello con cui la madre ucciderà i suoi figli, coagula in sé l’atto tragico e priva il quadro di ogni potenza emotiva.

Rileggendo un saggio che Henri Focillon pubblicò nel 1930, ho notato che il grande quadro della Libertà dipinto da Delacroix per celebrare le “tre gloriose giornate” che nel 1830 videro il popolo rivoltarsi contro la politica reazionaria voluta da Carlo X, non era intitolato come oggi La Libertà che guida il popolo, ma in modo meno enfatico e più puntuale: Liberté sur les barricades. Le barricate costruite dagli insorti furono un mezzo vincente che costrinse il re a mandare a casa il governo e ad abdicare (trent’anni dopo, Napoleone III, comprendendo la forza delle barricate nella Parigi fatta di strade e stradine, incaricò il prefetto della Senna, il barone Haussmann, di rivoluzionare la struttura viaria così che fra il 1852 e il 1869 i vecchi quartieri parigini vennero demoliti e smembrati per far posto alla raggiera dei boulevard che con la loro larghezza consentivano ai mezzi militari della polizia di smantellare facilmente le barricate delle nuove insurrezioni). Insurrezione e barricata, due termini che si corrispondono perfettamente nell’immagine del popolo che si oppone alla macchina del potere, insomma. «Questo grande pittore di Venezia, questo grande pittore di Anversa», così lo definisce Focillon (Tiziano e Rubens, insieme), «tutto pieno delle tristezze e delle passioni del XIX secolo»; per il grande storico francese era l’emblema di una «regalità silenziosa».

Resta da chiedersi come mai, dopo aver scritto nel 1863 il suo ultimo saggio su Delacroix, in contemporanea Baudelaire invii al “Figaro” tre puntate intitolate al «pittore della vita moderna», dove però il campione della modernità non è Delacroix ma il modestissimo Constantin Guys de Sainte-Hélène… Forse «vita moderna» per Baudelaire era un odioso, ma fascinoso concentrato di vizi e virtù che generavano una estetica «banale», mentre Delacroix era fuori da ogni dimensione transeunte, espressione pura del genio.

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