giovedì 10 novembre 2011
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I Paesi sono i più disparati, dalle Filippine al Corno d’Africa, dal Sudan alla Malesia, dall’Indonesia alla Nigeria, ma è sempre attorno al Decimo parallelo nord che musulmani e cristiani storicamente si confrontano e scontrano con maggiore frequenza. Ed è questa linea che avvolge il Pianeta a circa 1100 chilometri dall’Equatore – la fascia dove si incontrano il deserto del Nord e le foreste tropicali del Sud – a fare da teatro anche alle più accese tensioni all’interno delle due fedi. Questa è la teoria di Eliza Griswold, una giovane autrice che, dopo un fortunato esordio in poesia, ha viaggiato per sette anni, sopravvivendo a guerre, terremoti e attacchi terroristici per scrivere The Tenth Parallel: Dispatches from the Fault Line Between Christianity and Islam ("Il Decimo parallelo: dispacci dalla linea di frattura fra islam e cristianesimo", edito negli Usa da Farrar, Straus and Giroux).Che cosa le hanno insegnato i suoi viaggi lungo il decimo parallelo sugli scontri fra cristiani e musulmani?«Fra il Decimo parallelo nord e l’Equatore vivono, fianco a fianco, più di metà della popolazione islamica e più di metà di quella cristiana. Secoli di storia delle due religioni e di lotte per le risorse naturali hanno avuto luogo qui. E lì ho trovato un’enorme varietà anche all’interno delle due fedi, a causa delle influenze animiste e delle diverse pratiche religiose dettate dai leader politici locali. Non a caso ho scoperto che lungo il Decimo parallelo gli scontri religiosi più trascurati sono proprio quelli all’interno delle due religioni: le lotte per il diritto a parlare in nome di Dio e determinare quale impatto la legge di Dio debba avere sulla società. Ho notato poi che gli scontri tra le cristiani e musulmani sono spesso creati, fomentati o utilizzati per scopi politici, non solo dalle autorità locali».Lei infatti sostiene che le lotte interreligiose lungo il Decimo parallelo sono talvolta state amplificate, e a volte persino causate, dall’Occidente. In che modo?«Si prenda l’esempio del Sudan, dove il governatore generale dell’impero britannico, sir Reginald Wingate, all’inizio del Novecento ha volutamente contrapposto gli arabi musulmani del nord contro i neri africani del sud, dichiarando illegale per i missionari cristiani spingersi fra i musulmani e per i commercianti arabi vendere le loro merci a sud del Decimo parallelo. L’eredità di questa divisione si è vista di recente nello spargimento di sangue del Darfur. Ma non è l’unico caso».E oggi, perché le guerre lungo questa linea sono particolarmente importanti?«Perché dall’esterno appaiono come un classico caso di "noi contro di loro". È sempre stato così, ma in questo momento più che mai, perché, a causa della globalizzazione, l’identità religiosa è diventata più rilevante persino dell’identità nazionale, etnica o razziale. Se la gente è più religiosa, pensiamo che combatta di più per cause religiose. Ma non è così. In realtà i gruppi religiosi usano l’altro per definire il proprio credo. Si presentano ai propri correligionari come difensori della purezza della loro fede di fronte alla minaccia del diverso. Ma se lo dipingono come "altro", non necessariamente lo vogliono combattere».Pensa che questo valga anche al di là del Decimo parallelo?«Sì, è così in America, forse meno in Europa. Negli Stati Uniti pensiamo di vivere in una fase “post-religiosa”, mentre in realtà l’identità religiosa è forte quanto nei Paesi lungo il Decimo parallelo».Lei scrive che povertà, sottosviluppo, cambiamenti climatici e Stati nazionali non esistenti sono elementi essenziali della storia della violenza religiosa. Perché allora concentrarci tanto sulle guerre di religione, o perché persino chiamarle così?«Infatti, tecnicamente parlando, questi non sono conflitti religiosi. L’identità religiosa è intrecciata a competizioni per il controllo delle risorse o dei diritti dei cittadini di mandare i loro figli a scuola o di bere acqua potabile. Ma è più facile concentrarsi sugli aspetti religiosi. Tendiamo sempre a semplificare l’altro. Nel caso dell’islam, trascuriamo il fatto che quattro quinti dei musulmani non vivono in Medio Oriente ma in Africa e in Asia, e così non comprendiamo quanto eterogeneo sia il mondo musulmano».Pensa che questi scontri peggioreranno a causa della scarsità di risorse provocata anche dai cambiamenti climatici?«Per un certo periodo credo che si intensificheranno. Inoltre, poiché né il cristianesimo né l’islam sono realtà molitiche, potrebbero verificarsi casi di conflitto anche all’interno delle religioni. L’elemento positivo è che simili scontri portano a una maggiore conoscenza dell’altro. Una delle conseguenze del conflitto è che ci costringe a studiare la percepita minaccia. Questo ci porta anche a conoscere meglio la nostra identità religiosa e a riconoscere i nostri pregiudizi».
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