venerdì 2 febbraio 2018
Una mostra al Museo Fico di Torino cerca nei dipinti del pittore ferrarese i legami con l’antico e la botanica
Filippo De Pisis, "Natura morta con calamaio" (particolare, 1926)

Filippo De Pisis, "Natura morta con calamaio" (particolare, 1926)

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Lo spunto era felicissimo: cercare nella pittura di Filippo De Pisis le tracce della sua passione per la botanica e l’entomologia, ma anche i suoi riferimenti all’antico. Il risultato però è vago: a fronte circa 120 opere dell’artista più alcune decine di altri pittori suoi contemporanei, percorrendo le sale del Museo Fico fino al piano superiore, l’idea poco alla volta si annebbia in una generica ricerca di rapporti coi maestri del passato (dall’arte ferrarese medievale e rinascimentale, fino a quella più sensuale del Seicento, fra carnalità e concettismo, per approdare all’Ottocento di Manet e poi impressionista: ma mancano opere che consentano de visu un confronto). In effeti se la mostra, curata da Elisa Camesasca, Paolo Campiglio e Maddalena Tibertelli de Pisis, avesse cercato con rigore di provare in modo palmare il rilievo pittorico della formazione del giovane De Pisis sui manuali di Buffon, sulla poetica dell’erbario, che fu precoce in lui come il sentimento lirico, forse oggi avremmo sotto gli occhi un salto veramente decisivo per comprendere il passaggio da una pittura ispirata dalla sensualità delle cose reali e naturali (e dall’arte del passato) a una progressiva rarefazione che rasenta la poetica del vuoto orientale e trova negli ideogrammi di Michaux un lontano parente, in particolare nelle tele veneziane di De Pisis degli anni Trenta e Quaranta.

L’erbario è l’ambito dove la natura leggera e minuziosa di De Pisis, attenta ai dettagli e al posto delle cose nel mondo, emerge con la volontà di trovare nelle piante che classifica un «tesoro di forme» che sia anche memoria della storia dell’arte. L’erbario di De Pisis raccoglieva circa millecinquecento campioni (alcuni sono esposti anche in mostra), classificati con piglio scientifico e dove ogni specie era citata col nome latino, ma senza negarsi a margine delle schede – nota Elisa Camesasca – qualche commento di pura meraviglia e poesia di fronte alla bellezza e alla forza dei reperti. L’erbario entrò a far parte nel 1917 dell’Orto Botanico di Padova per donazione dell’artista, ma nel 1940 purtroppo venne smembrato e ogni campione integrato fra le specie di appartenenza, per cui se ne erano perse le tracce fino a quando, nel 2012, un libro di Marcucci e Roncarati ( Filippo de Pisis botanico flâneur edito da Olschki) ne ha ricostruito la consistenza.

Da questa erudizione appassionata per le piante venne quel saggio per tanti aspetti ancora incantevole che De Pisis, giovane storico dell’arte, pubblicò proprio nel 1917 sulla rivista “Rassegna Nazionale”, dove esaminava la presenza di Fiori e frutti nella pittura ferrarese (a questo scopo si trovò all’epoca a frequentare assiduamente l’Orto Botanico di Padova a cui stava per donare il suo erbario). Il giovane storico dell’arte, che ancora non aveva deciso di votarsi alla pittura, era appassionato degli artisti ferraresi minori del XVI e XVII secolo (da Dielay a Muto di Ficarolo) e applicava nello studio dei dipinti la sua sapienza botanica seguendo il metodo all’epoca più diffuso fra i conoscitori d’arte, quello di Giovanni Morelli, il medico che dallo studio della fisiognomica applicata alla pittura aveva fondato le attribuzioni a partire dai dettagli secondari: il lobo di un orecchio, un’unghia o la coda dell’occhio come elementi di un linguaggio personale che, in presenza di un’opera anonima, consentiva ai detective dell’arte di rivelarne l’autore. Così, anche De Pisis si muoveva nella pittura ferrarese scovando attraverso le forme vegetali la ricorrenza di forme e stili.

Ma nelle descrizioni del giovane conoscitore e futuro pittore, si avverte anche l’inclinazione a sentire questi dettagli con un afflato lirico che aspira a riportarli alla vita: «Osserviamo i fiori dei vari mazzi: in un vaso, geranei rossi, i comuni gerani dei quali s’adorna la piccola finestra del vicolo e che olezzano al sole piantati in un vecchio vaso di terra dipinto o in un secchio presso la gabbia del merlo. In un altro, tromboni giallissimi, ranuncoli, anemoni cilestri e violacei, creste di gallo, aquilegie piene di evidenza, la pianta preferita degli arazzi». Il valore poetico della scrittura, che cerca di diffondere nello spazio il profumo di quelle vite vegetali, supera abbondantemente il referto dello studioso di botanica. Anzi fa pensare che De Pisis stia già dipingendo con le parole le proprie nature morte che – come ricorda Paolo Campiglio – non gradiva fossero confuse col genere pittorico: «Le mie nature morte non hanno nulla a che fare con le “nature morte”, per esempio, della pittura seicentesca, così gloriosa tuttavia, e ancora meno con certe nature morte della pittura dei nostri tempi... Le mie nature morte, ancor prima di un loro valore pittorico e costruttivo, ne devono avere per me uno lirico e interiore». Se nel 1951 Giuseppe Raimondi, aveva scritto che i maestri di De Pisis erano stati i vicoli della Roma barocca dove vagabondava dopo essere venuto via da Ferrara, la sua poetica della sensazione nei momenti di maggiore libertà e intensità lirica pare affine piuttosto alla scuola emiliana del Seicento che elabora una “poetica degli affetti”; e ancor prima, su De Pisis aveva agito il gusto erudito dell’antico e della natura del conterraneo Dosso Dossi.

Il limite della mostra sta nell’aver voluto allargare il campo a una classica retrospettiva, con una generica partizione temporale che articola il rapporto col realismo manetiano e poi l’interesse per le avanguardie, con De Chirico e Savinio, il realismo magico, Casorati e il Novecentismo. Ma come giustamente osserva Maddalena Tibertelli «il Surrealismo è l’unica avanguardia verso la quale De Pisis sente affinità e per la quale manifesta l’interesse a farne parte». Sensuale e psichico, onirico e reale si compongono dentro una forma che ha il suo specimen proprio nella cultura botanica. Così i quadri di Venezia che prima ho ricordato hanno la sostanza di astratti guizzi nello spazio, filiformi essenze vegetali mosse dal vento, paradigma di leggerezza atmosferica fuori da ogni sentimento di gravità; è la memoria – che De Pisis rielabora in un sentimento modernissimo e drammatico dello spazio – , dei vedutisti veneziani che avevano ritratto le presenze umane dentro quel teatro del mondo come anonime silhouettes di colori. Una sublime trasformazione della sostanza barocca in puro sentimento della propria interiorità: autoritratto lirico.

Filippo De Pisis - Torino, Museo Fico - fino al 22 aprile

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