domenica 12 giugno 2016
​​Il musicista partenopeo festeggia i 50 anni di attività con un triplo cd e concerti in cui ripropone i successi di una carriera cominciata con Pino Daniele, James Senese e Joe Amoruso.
De Piscopo: Napoli torna centrale
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L’idea di comporre Andamento lento, il successo discografico dell’estate 1988, gli venne un pomeriggio, all’improvviso, a bordo di un taxi, in coda nel traffico di Roma. Attirato dai rumori delle automobili e dal suono dei clacson, Tullio De Piscopo ebbe un’ispirazione: dei ritmi cominciavano a ronzargli dentro la testa. E quando l’autista commentò la situazione dicendo «è un andamento lento...», aveva già tutto chiaro, persino il titolo della canzone: disdì l’appuntamento romano e si fece portare subito in taxi a Napoli, dove nottetempo, nella sua Porta Capuana, tra una pizza, una limonata e un caffè, avrebbe buttato giù in tranquillità le note del pezzo da presentare a Sanremo. Il viaggio gli costò 400mila lire ma alla mamma il brano, tra pop e rock (come la maggior parte delle sue “creazioni”), piacque assai. E non si sbagliava, la signora Giuseppina: nonostante il 18° posto al festival, la canzone rimase a lungo ai vertici della hit parade. E con i soldi di quel singolo l’artista potè finalmente comprare una casa per i suoi familiari. Tullio De Piscopo è fatto così, è un miscuglio di genio e sregolatezza, istinto, talento, studio e colate di intensa passione. Come un “Vesuvio”. Ancora oggi, a 70 anni d’età e mezzo secolo di carriera (celebrato con concerti in giro per l’Italia insieme con “La nuova compagnia di canto popolare” e con il triplo Cd 50! Trilogy-Musica senza padrone, Wea, euro 20,90), quando sale sul palco saltella come un giovanotto muovendosi tra batterie, hang e congas, gli strumenti a percussione con i quali è in grado di produrre armonie come fosse un’orchestra sinfonica. Partenopeo verace, figlio e fratello di un batterista, De Piscopo il ritmo ce l’ha nel sangue. «La mia musica è “fatta a mano” e, soprattutto, senza padroni» precisa. Cioè? «Non mi piace lo show-business, odio le finzioni e i contratti di ferro che ti obbligano a sfornare per forza dei pezzi entro un certo tempo. Io ne rifiutai uno milionario negli anni 90 con un’importante casa di produzione Usa che mi garantiva 150 mila copie...dissi di no perché voglio essere un uomo libero». Un uomo, e un musicista, libero che adesso sta vivendo una seconda giovinezza... «Una vita nuova. Mi sono svegliato da un torpore. Ero stufo di case discografiche, di televisione, dei soliti giri. Andavo a suonare solo quello che volevo io e dove volevo io. Poi mi sono dovuto fermare... ». Perché? «I medici mi dettero sei mesi di vita per un cancro al fegato. Non volevo cure. Ma mi misi davanti allo specchio e capii che dovevo reagire. Come rinunciare alla gioia dei miei quattro nipotini? Soltanto Pino Daniele sapeva di quel male, non lo rivelai a nessuno. Quando venne in ospedale piangemmo insieme ma gli promisi che avrei ammazzato il mio cancro. E l’ho fatto. Ho pregato la Madonna e sono guarito. Per me è stato un miracolo». Ma qual è il segreto di questa sua “vita nuova”? «Il sorriso. E il contatto continuo con i giovani che mi comunicano tanta freschezza. Da 35 anni, nella mia scuola di Milano, insegno ai ragazzi “dettato ritmico” e batteria. Ma con loro faccio anche un’esperienza di paternità, cerco di tenerli lontani dai rischi della solitudine». La fede c’entra con il suo vivere quotidiano? «Certo! Per me significa non avere mai paura di quello che accade, anche delle cose più pazzesche come la guerra: bisogna affidarsi, farsi il segno della croce e pregare. Aiutare gli altri. Regalare un sor- riso. Una cosa di cui non sempre siamo capaci. Spesso siamo tristi, viviamo come “zombi”, non abbiamo voglia nemmeno di salutare nostra moglie, ci lasciamo sopraffare dal male. Ma basterebbe un sorriso, appunto...». A proposito, quanto conta la famiglia per Tullio De Piscopo? «Ha sempre avuto un ruolo fondamentale. I miei genitori erano poveri, in casa non avevamo nemmeno la doccia e la televisione. Si viveva con poco, abbiamo fatto un sacco di sacrifici. Mamma e papà mi hanno insegnato soprattutto l’onestà, con me stesso e con gli altri. Dalle mie due figlie Giusy e Michela e da mia moglie Dina ho preso invece la forza per andare avanti e trovare la giusta collocazione nel mondo della musica. Il loro amore mi ha salvato. E ne sono molto felice». E la musica? «Beh, anche quella è importante nella mia vita.... Sin da piccolo sognavo di essere un grande batterista. Ho avuto il grande Max Roach come modello, e poi ci ho anche suonato insieme». Lei ha avuto il merito di portare in Italia e in Europa la batteria di una band, di solito uno strumento di ritmica e accompagnamento, in una posizione di primo piano. Insomma, l’ha fatta diventare una protagonista.... «Sì, l’ho messa sul proscenio, davanti agli altri strumenti.... ma è il frutto di un duro lavoro, di studi e sacrifici. Dopo il conservatorio cominciai a suonare gratis nei locali della mia città. Una lunga gavetta. Poi è arrivata l’esperienza jazz a Milano con il quartetto di Franco Cerri e quella, anch’essa esaltante, con gli amici di “Napoli Centrale”, Pino Daniele, James Senese, Joe Amoruso, Tony Esposito e gli altri». Anni 70. Fu una grande stagione. Chi sono oggi i vostri eredi? «Adesso imperversa il rap, poca melodia, poca composizione, poco arrangiamento. Manca la musica d’insieme come la facevamo noi che abbiamo suonato anche ad Harlem, cuore afro-americano di New York, con James Brown, I temptations, Eumir Deodato...». Eravate i “neri napulitani”.... Ora invece vanno i rapper come Rocco Hunt e Ivan Granatino. Lei li ha chiamati per rifare Canto d’oriente, una delle 56 tracce del suo triplo Cd. Un pezzo del 1994 però attualissimo perché parla di popoli in fuga da guerre e genocidi. «Sì, ma con loro faccio duetti... E poi, ripeto, non c’è più quel fermento di una volta, cinque o sei amici che si uniscono per fare musica intelligente. Canto d’oriente l’ho scritto con Matteo Di Franco e arrangiato con Carlo Giardina: fui colpito dal massacro nella ex Jugoslavia, dai cecchini che sparavano sulla gente indifesa e sui bambini. Un orrore che accade anche oggi in altre parti del mondo».
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