venerdì 27 settembre 2019
Una grande mostra a Palazzo Reale legge tutta la carriera del padre della Metafisica attraverso il pensiero di Nietzsche e la permanenza, lungo il variare dell’opera, di una mitologia famigliare
Giorgio de Chirico, "Ettore e Andromaca" 1923 (particolare)  (© Giorgio de Chirico by SIAE 2019)

Giorgio de Chirico, "Ettore e Andromaca" 1923 (particolare) (© Giorgio de Chirico by SIAE 2019)

COMMENTA E CONDIVIDI

Chi non ama de Chirico, chi magari lo trova importante ma non interessante, chi nemmeno se me lo regalassero (esistono e sono opinioni lecite), vada a vedere la mostra appena aperta a Milano. Perché è una grande mostra, che getta uno sguardo complessivo e completo sull’opera di un artista che è stato non solo “il Grande Metafisico” e nemmeno solo il “ Pictor Optimus”, in cui grazie al curatore Luca Massimo Barbero tutto si tiene in un intreccio di “eterni ritorni”, che essi siano soggetti, oggetti, personaggi, particolari, intere fasi creative.

Come scrive Barbero nel catalogo (Marsilio Electa) «il riproporsi di temi, o persino di opere in de Chirico, è l’esito della ferma convinzione di natura nietzschiana che “il passato e il presente sono la stessa identica cosa, cioè tipicamente uguali in ogni varietà, e costituiscono […] una struttura immobile e di significato diversamente uguale”». La citazione è dalle Considerazioni inattuali di Nietzsche ed è difficile non vedere come, in questo De Chirico “ritornante”, la costellazione di varianti e deviazioni a volte siano intraprese quasi solo per il gusto di essere opposto e contrario rispetto al suo stesso presente, una dichiarazione di antimodernità che sa di nietzschiana innatualità. Eppure in questa spirale continua, ogni ritornello o ripresa – come dovrebbe essere in ogni esecuzione musicale che si rispetti – suonano identici e diversi. Le note sono, sembrano le stesse ma il senso slitta altrove per via del dislocarsi nel tempo dell’evento ritrovato.

La chiave di tutto il percorso, che riporta de Chirico a Palazzo Reale 50 anni dopo la grande retrospettiva del 1970 con un centinaio di pezzi, tutti importanti, da grandi musei e collezioni private, è subito nella prima stanza: i quadri mitologici che rievocano la giovinezza in Grecia, a Volos in Tessaglia: la terra dei centauri e degli Argonauti, e quindi l’Autoritratto a cui il giovane artista, nella stessa posa di una celebre foto di Nietzsche («Nei suoi cento autoritratti – aveva annotato Maurizio Fagiolo dell’Arco – parla sempre con associazioni da svelare. Non è mai se stesso solitario ma con qualcuno... Non è mai in posa generica ma è sempre atteggiato come qualcuno»), appone il motto “Et quid amabo nisi quod aenigma est?”, cosa amerò se non l’enigma?

Il mito greco è il luogo dove è nato e cresciuto, la civiltà tedesca (visivamente rappresentata da Klinger e Böcklin) quello dove si è intellettualmente formato: il secondo filtra il primo, il primo modella il secondo. Eppure Giorgio de Chirico e il fratello Alberto Savinio sono costretti dalla madre a uno spostamento continuo (Torino, città enigmatica e nietzscheana, Milano, Parigi) che li costringe all’identità dei déracinées. Su queste vicende de Chirico, osserva Barbero, costruisce «una mitologia familiare» che innerva, come un filo rosso, tutta l’opera e i cui segni compongono tante volte il rebus, l’enigma. Il centauro e la locomotiva sono la memoria del padre scomparso, ingegnere ferroviario in Tessaglia. Le vele la partenza dei due Dioscuri Giorgio e Andrea. Ma la nostalgia che vibra nelle incongruenze della Metafisica e nei dipinti neobarocchi o neoquattrocentisti (ovvero nella sostanza postmoderni) del Pictor Optimus è proprio la coscienza dell’irreazzabilità di un nostos, di un ritorno: all’arcadia e alla grande pittura, entrambe irrimediabilmente perdute. Ma se non c’è ritorno nella realtà, il solo concesso è quello “eterno” dell’arte.

Giorgio de Chirico, 'Ariadne' 1913. New York, Metropolitan Museum of Art (© Giorgio de Chirico by SIAE 2019)

Giorgio de Chirico, "Ariadne" 1913. New York, Metropolitan Museum of Art (© Giorgio de Chirico by SIAE 2019) - Image copyright The Metropolitan Museum of Art/Art Resource/Scala, Florence

Il silenzio duro come il cristallo delle Piazze d’Italia (enigmi cartesiani, per questo così efficaci) che snobba il Futurismo e porta scompiglio nella Montparnasse cubista; la straordinaria maturità della claustrofobica Metafisica degli anni ferraresi con i manichini, il bric-à-brac delle squadre e delle cornici, la mise en abyme dei quadri nei quadri, quegli iperrealistici biscotti che nell’attrito tra percezione e aspettativa e nel fallimento della congruità tra oggetto e contesto spezzano la continuità del reale. Sono dipinti che funzionano non solo per “l’idea”, la logica onirica, ma perché De Chirico è grande pittore: l’immagine non reggerebbe senza la sua abilità di definire lo spazio attraverso la luce. Tinte piatte, ombre grumose, il variare del chiaroscuro sui volumi e sui torsi di marmo, lo schiarirsi del cielo all’orizzonte mentre in alto sprofonda in un verde marino, il mutare dei toni che ora si accendono di gialli e rossi densi e vibranti.

Da questa consapevolezza tecnica muovono negli anni 20 le prime tentazioni barocche e romantiche, tra pittura pompeiana e Lorraine, Delacroix e Renoir, che approdano – attraverso la conoscenza di Previati e Segantini – a una pittura di filamenti con cui interpreta la ritornansere te Metafisica: quella degli Archeologi e dei Filosofi, degli abbracci tra manichini e statue(che finalmente tradiscono emozioni umane), tra Ettore e Andromaca, fino ai Bagni misteriosi. Ma ormai la tensione dell’enigma è svaporata. Al suo posto è subentrato il gioco.

Il mistero è interpretato attraverso la chiave dell’ironia, a tratti persino beffarda. C’è un neoclassicismo affine a quello stravinskijano. De Chirico inventa le stanze, scatole che si popolano di templi, paesaggi mediterranei, manichini, cavalli, gladiatori. Un quadro come La genealogia del sogno evidenzia come non è necessario che il mistero debba essere per forza inquietante, anzi può es- dotato di una grazia persino gioiosa.

Se Barbero cerca di recuperare finalmente il « momento rutilante, incredibile e oggi particolarmente avvolgente che è quello del de Chirico barocco, al quale si è sempre guardato con sufficienza», è anche vero che in mostra resta minoritario. Di questa fase sono in mostra soprattutto una serie di autoritratti in cui l’artista si mette letteralmente a nudo o si presenta in costume (alla seicentesca, come un torero...), delle messe in scena come vere e proprie performance che Barbero fa anticipatrici di figure come Ontani e Sherman. De Chirico fa metapittura, si confronta con generi e epoche, il suo essere estremamente serio in volto va in contorcircuito con i costumi di cui si riveste.

In questa chiave metapittorica diventa comprensibile l’ultimo ritorno della Metafisica, in apparente identità di soggetti con quella storica. L’unicità dell’enigma diventa, negli anni della società e della produzione di massa, un oggetto replicabile in serie? No. A separare questi dipinti dai primi è proprio la luce completamente diversa. Con la neometafisica De Chirico seppellisce il mito di se stesso e con lui, e per sempre, l’enigma.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: