martedì 26 maggio 2020
Nella settimana in cui dovrebbe arrivare l’ok per la ripartenza della Serie A (13 o 20 giugno) i gruppi ultrà che si sono distinti sul fronte solidale, uniti dicono «no alla ripresa del campionato»
Davanti al Covid la Curva non sbanda
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«Prima il rispetto e la dignità... Per noi il campionato finisce qua!». Dagli Appennini alle Ande, questo è da oltre un mese il grido di battaglia, pacifico e civilissimo, lanciato dal mondo ultrà. Un mondo vario e meno avariato di un tempo (i violentissimi anni ‘80–’90 fino a un decennio fa), almeno stando alle statistiche (meno scontri, meno arresti e meno Daspo), e che nel momento dell’emergenza Covid– 19 si è distinto assai più di molti “scienziati– ultrà” (virologi e immunologi in primis) per sensibilità. comunicazione e azioni concrete sul fronte solidale. «La prima raccolta fondi per l’Ospedale Spallanzani l’hanno organizzata proprio gli ultrà della Curva Sud della Roma, gli autori di quello striscione», ci tiene a sottolineare “l’avvocato degli ultrà” come è noto da tempo nell’ambiente, il legale romano Lorenzo Contucci.

«Quanti processi ho patrocinato in questi anni per reati commessi da ultrà? Centinaia, ma posso testimoniare che, specie negli ultimi anni, la maggior parte dei miei assistiti sono persone che hanno commesso “reati da stadio” del tutto isolati e non riconducibili ad organizzazioni di matrice politica o malavitosa. La maggior parte degli ultrà hanno un lavoro stabile, una famiglia alle spalle e sono semplicemente animati da una passione molto accesa, la stessa che ora mettono a disposizione della comunità, per tutelare la propria gente e il proprio territorio che conoscono e vivono assai più di tanti politici».

Chi non ha perso un solo istante per soccorrere i propri concittadini sono stati i tifosi delle Curve di Bergamo e Brescia. Gli ultras atalantini della “Nord Bergamo” hanno raccolto decine di migliaia di euro per sostenere l’ospedale Papa Giovanni XXIII. Tradizione vuole che i bergamaschi siano i migliori magut( artigiani dell’edilizia) su piazza, quindi muratori, facchini e imbianchini con sciarpa nerazzurra al collo si sono ricollocati volontariamente per prestare manodopera nella realizzazione, in tempi record, dell’ospedale alla Fiera di Bergamo. Con loro c’erano anche gli ultras bresciani che dal gemellaggio con i colleghi tedeschi del Norimberga si sono visti arrivare un assegno da 15mila e 600 euro intestato alla “Nord del Brescia”. E il gruppo lo ha subito girato per fare la spesa da portare a domicilio alle famiglie indigenti della città della Leonessa e agli anziani impossibi-litati ad uscire di casa durante la quarantena.

Per queste frange, considerate frettolosamente “estreme”, l’unico campionato che ora ha senso giocare – fino in fondo – è solo quello della solidarietà. L’antico campanilismo e l’incendiaria rivalità calcistica si è sciolta in un pianto collettivo da una provincia all’altra, dinanzi alla lugubre sfilata delle bare trasportate dai camion militari. Il 50% delle quasi 33mila vittime italiane del Coronavirus provengono dal quadrilatero lombardo Bergamo, Brescia, Milano, Cremona. «Sugli spalti senza la mia gente... che non riparta niente». Uniti cantano in coro gli ultrà. E ai nuovi protocolli e ai tavoli di lavoro ministeriali per la ripresa del calcio giocato rispondono con messaggi chiari e forti: «Chi muore, chi soffre... e chi lucra. Stop al campionato».

Sono striscioni diventati slogan virali in tutta Europa, dove sono almeno 400 i gruppi delle tifoserie organizzate contrari alla ripresa dei tornei. In Germania il fronte del «no» era partito dalla Curva dei campioni del Bayern Monaco e nonostante il coinvolgimento convinto degli ultrà del Kaiserslautern e dello Stoccarda, alla fine la Bundesliga è già scesa in campo da due turni. Gli ultras amano il calcio e la loro squadra del cuore ma prima di tutto vengono «la sicurezza e la salute dei cittadini ». Perciò nella Milano ferita dal Covid– 19 nelle scorse settimane la Nord interista scriveva: «È per tutti un enorme dispiacere e sacrificio, ovviamente. Ma prima che Ultras siamo uomini e donne d’Italia. Ricali il sipario. Silenzio e rispetto». Sui social i cugini del Milan sottoscrivono appieno, anche dall’alto dei primati stagionali, condivisi a San Siro, delle presenze allo stadio.

L’Inter prima del lockdown di marzo viaggiava a una media di 65.800 spettatori a partita. Tifoseria nerazzurra capolista per densità sulle gradinate del Meazza davanti al Milan che sfiorava le 50mila unità. La media nazionale si attestava a 27.324 presenze a gara, superiore all’anno passato (circa 25.500), la maggiore registrata dalla stagione di Serie A 2000–2001. Dati record per il campionato a 20 squadre che certificano una voglia matta di ritorno allo stadio. Una crescita anche in virtù dei nuovi impianti, più comodi e più sicuri, a cominciare proprio da quelli delle due ex “zone rosse” di Bergamo e Brescia. L’Atalanta quest’anno aveva inaugurato quel gioiellino che è il Gewiss Stadium e il Brescia con la promozione in A ha mostrato un Rigamonti restaurato.

Stadi finalmente quasi “smilitarizzati”, come chiede da sempre Carlo Balestri, storico e antropologo vicepresidene dell’Uisp (Unione italiana sport per tutti) dell’Emilia Romagna che nel 1995 diede vita al “Progetto Ultrà”: un osservatorio che fino al 2008 si è occupato delle problematiche legate al mondo del tifo calcistico. «Mi pare che ormai la decisione sia alle porte: la Serie A seguirà la Germania, quindi prepariamoci ad assistere al ritorno dei “gladiatori” che si esibiranno nelle nostre arene dagli spalti deserti – dice Balestri – . La cultura popolare del tifo si è battuta per essere riconosciuta come cittadinanza di serie A, ma dobbiamo arrenderci alla realtà: ha vinto la commercializzazione del prodotto calcio, lo showbusiness televisivo che è la ragione unica per cui si accelera per un ritorno in campo dell’industria del pallone».

Le ragioni di una ripresa rapida e possibilmente indolore sono molteplici e tutte di natura economica. Per i mancati introiti (televisivi, pubblicitari, incassi da botteghino e il merchandising) che sono andati in fumo negli ultimi 90 giorni con i campionati e le Coppe europee sospese, è stata calcolata una perdita complessiva di circa 4 miliardi di euro. I danni finanziari maggiori ricadono ovviamente sulla lega più ricca, la Premier inglese, ma a pioggia rendono ancora più critica la situazione di Bundesliga, Liga spagnola, Ligue1 francese e la nostra povera Serie A. L’abbonato italico alla pay–tv può consolarsi con una imminente ripresa delle trasmissioni. E siccome il ministro dello sport Vincenzo Spadafora, caldeggia una diretta–gol in chiaro, secondo il modello tedesco, allora il tifoso da salotto potrà anche richiedere un rimborso a Sky che ha già dato la sua disponibilità a risarcire gli utenti abbonati con 15,20 euro al mese. «Il calcio in tv mi fa “Sky–fo”», è lo striscione ormai ingiallito che campeggia nella Curva atalantina dai tempi in cui gli stadi si stavano svuotando, complice la disaffezione dopo lo scandalo di Calciopoli (estate 2006) e gli strascichi continuati nel tempo in cui la diceria popolare del «campionato più bello e difficile del mondo» era diventata anch’essa una vecchia cartolina sbiadita.

Ma con l’avvento di Ronaldo alla Juve, dei cinesi munifici all’Inter di Antonio Conte e le belle favole della Lazio in piena corsa–scudetto e dell’Atalanta qualificata ai quarti di Champions, la febbre a 90’ da stadio stava risalendo, e il sano delirio collettivo abbozzava un nuovo sogno di futura gloria. Poi è arrivata questa pandemia e il sogno si è fatto incubo. La riapertura non sarà una festa ma un funereo stadio vuoto e le molte sagome di cartone non serviranno a coprire i vuoti in tribuna ma semmai a rendere omaggio a tanti di quei tifosi caduti nella guerra del Coronavirus. Nell’attesa, la Curva canta, con triste speranza nel cuore, assieme a Elio e le Storie Tese: « Nessuno allo stadio, nessuno di nessuno. Che sia odio o che sia amore, passerà...».

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