mercoledì 6 giugno 2012
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Nel 1985 l’allora prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede Joseph Ratzinger tenne 6 lezioni alla Fondazione Sankt Georgen in Carinzia, 4 delle quali dedicate al tema della creazione tra Bibbia e scienza. Quei testi finora inediti in italiano vengono oggi raccolti (insieme a un altro scritto del Papa sulla comprensione della fede nella creazione, già pubblicato nel 1969) nel volume «Progetto di Dio. La creazione» per la Marcianum Press (pp. 208, euro 19). Proponiamo in questa pagina stralci dell’introduzione di Giuseppe Tanzella-Nitti, docente di Teologia fondamentale alla Pontificia università Santa Croce.

In merito al confronto fra teolo­gia della creazione e pensiero scientifico, le pagine delle lezio­ni tenute in Carinzia nel 1986 tra­smettono alcune intuizioni, o co­munque contengono alcune linee­guida su come Joseph Ratzinger sembra volersi accostare a questa delicata tematica. Esaminiamole brevemente. Un primo elemento è l’intento dell’autore, comune anche ad altri suoi scritti, di proporre una pro­spettiva unitaria della Sacra Scrit­tura, proponendo al contempo u­na visione dinamica della sua sto­ria redazionale, riflesso del pro­gresso dell’esperienza religiosa di Israele. La verità di un testo non va cercata solo ricostruendo il più precisamente possibile le sue origi­ni storico-filologiche, muovendosi all’indietro, ma bisogna anche guardare avanti: la verità del testo è nel suo compimento, in Cristo, in accordo con quanto l’esegesi patri­stica aveva suggerito. Un secondo elemento che caratte­rizza la teologia biblica di Ratzin­ger in relazione alla rivelazione delle verità sulla creazione è sotto­lineare il valore positivo di tutto ciò che accomuna, nelle stesse pagine della Scrittura, l’esperienza religio­sa di Israele con l’esperienza au­tenticamente religiosa vissuta dagli altri popoli. Se le differenze specifi­che parlano del modo in cui la Pa­rola di Jahvé si erge sul mito, quan­do quest’ultimo viene inteso come 'favola', le comunanze, altrettanto importanti, parlano invece della ri­velazione e del compimento del mito, quando questo viene inteso come un contenuto veritativo ar­caico dalle forti basi antro­pologiche. Tale impostazio­ne conduce Ratzinger a prendere le distanze da Karl Barth. L a correzione di rotta è, in proposito, esplicita: «Sono cresciuto teolo­gicamente nell’era di Karl Barth – egli afferma ricor­dando i suoi anni universitari – ed anche i miei insegnanti erano tutti profondamente segnati da lui, in modo tale che la distinzione di ciò che è cristiano, il differire dalle al­tre culture e religioni era come la prima parola del nostro pensiero teologico. Ora, quanto più vado a­vanti con la teologia, tanto più mi si fa chiaro, nell’esperienza e nella conoscenza, che egli aveva torto. La cognizione dell’unità delle cul­ture nelle più profonde questioni dell’esistenza umana è una cosa assolutamente decisiva, perché le culture comunicano e dunque re­stano aperte anche su quel tema [il creato], per l’appunto, decisivo». Un terzo aspetto di estremo inte­resse è l’insistenza con cui il già ar­civescovo di Monaco e Frisinga vuole evitare una separazione net­ta fra lettura spirituale e lettura scientifica del mondo creato. Egli non ritiene corretta l’idea che la verità della Scrittura si difenda me­glio relegando il discorso biblico in un ambito spirituale, vale a dire privandolo della sua capacità di formulare giudizi sulle verità natu­rali, dimenticando così che la Paro­la di Dio getta luce anche sul modo di guardare la natura, di conoscerla e di comprenderne l’intima intelli­gibilità. Chiaro l’intento di Ratzin­ger di proporre una dottrina della creazione capace di mantenere la duplice prospettiva di una creatio ex nihilo e di una creatio ex amore, tenendo così insieme il versante metafisico e quello esistenziale, il fondamento ontologico e il Dio personale, la Dei Filius e la Gau­dium et spes . Ambedue gli approcci sono oggi necessari e dimenticare anche uno solo dei due farebbe perdere un contenuto essenziale. Il fondamento ontologico è indi­spensabile al dialogo con le scienze naturali ed è in grado di raccordar­si con le aperture dell’analisi empi­rica verso l’esistenza di un fonda­mento dell’essere e l’intelligibilità di tutte le cose. All’epoca in cui Ratzinger teneva le sue meditazio­ni in Carinzia, era ancora viva l’eco suscitata dal libro di Jacques Mo­nod Il caso e la necessità (1970), pubblicato 15 anni prima. C on l’opera del biologo fran­cese egli entra spesso in dia­logo ideale, rileggendo l’al­ternativa monodiana fra caso e ne­cessità in termini di un’alternativa fra gratuità della contingenza e ne­cessità delle leggi di natura, propo­nendo di collegare la prima all’in­tenzionalità dell’amore che si erge sui fenomeni empirici o comun­que conoscibili solo empiricamen­te. Ratzinger accoglie e valorizza le differenze esistenti fra un organi­smo e una macchina elencate da Monod e attribuisce la specificità del primo a un supplemento di informazione che esso contiene e trasmette, di cui non teme di se­gnalare la risonanza platonica, se­condo una forma che l’organismo è in grado di riprodurre. Riveste senza dubbio interesse il modo con cui il teologo tedesco affronta la questione dei meccanismi darwiniani dell’evoluzione biologi­ca, che al sottolineare l’aleatorietà delle mutazioni genetiche sembre­rebbero mettere in crisi la visione, in maggior sintonia con la fede, di una vita che ascende in modo ordi­nato e finalistico da forme inferiori e sem­plici ver­so forme superiori e sempre più organizzate, fino all’uomo. Come potrebbero degli errori casuali nella trascrizio­ne del patrimonio genetico essere alla base del meccanismo evoluti­vo della vita, divenendo così inte­ramente responsabili della specifi­cità dell’essere umano, di quella medesima creatura che la fede cri­stiana confessa essere a immagine e somiglianza di Dio? Ratzinger è consapevole della sfida che i mec­canismi darwiniani sembrano por­re alla fede: «Siamo un prodotto di errori casuali accumulati. Anche questa, credo, è una diagnosi mol­to profonda e un’immagine del­l’uomo ». La contro-risposta che e­gli fornisce è prudente, ed in certo modo interlocutoria. Si lascia alla scienza il compito di fare il suo cor­so, di esaminare se non esistano al­tri fattori, altrettanto importanti, nell’evoluzione biologica, fattori (che oggi sappiamo operativi) che favoriscano piuttosto la stabilità delle proprietà della natura, delle regole alle quali la stessa evoluzio­ne debba in definitiva conformarsi, il suo 'platonismo' se ci si consen­te l’espressione… La fede sembra dirci, osserva Ratzinger, che tali fattori deb­bano esistere; tuttavia, egli non precisa a quale livello cercarli, ma si limita ad indicare che se gli elementi che privilegerebbero la stabilità dell’informazione o il suo ordinato dispiegarsi venissero ne­gati sul piano empirico, essi emer­gerebbero prima o poi sul piano delle descrizioni globali e globaliz­zanti, come dimostra il fatto che nelle descrizioni dei biologi la Na­tura venga spesso impersonificata, indicando in essa un 'soggetto' a­stratto capace di unificare in modo fittizio (e dunque surrettiziamente progettuale) l’intero processo evo­lutivo. È questo genere di 'sostitu­zioni' che, secondo Ratzinger, non dovrebbero essere accettate, la­sciando invece che le categorie spi­rituali siano riconosciute come tali, e dunque impiegate per esprimere lo spirito, non la materia. Di fronte a questo stato di cose, ed indipen­dentemente dal modo in cui com­porre l’apparente alternativa, egli ribadisce la convinzione ferma, as­sunta dalla fede nella Rivelazione, che l’essere dell’essere umano (val­ga la ridondanza) è il risultato di un progetto di Dio e non una som­ma di errori di trascrizione. Porre la casualità a livello ontologico equi­varrebbe ad elevare il darwinismo a rango di filosofia globale, ed è questa prospettiva, non l’aleato­rietà degli errori di trascrizione nel Dna, a non essere più compatibile con il messaggio della Rivelazione.

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