martedì 1 novembre 2022
Per il filosofo spagnolo mentre la scienza ha cambiato buona parte dei suoi paradigmi la politica non ha saputo altrettanto. «Il pluralismo non è la soluzione, ma senza pluralismo non c’è soluzione»
Il filosofo spagnolo Daniel Innerarity

Il filosofo spagnolo Daniel Innerarity - Juantxo Egaña/WikiMedia

COMMENTA E CONDIVIDI

«La politica continua a operare in base agli stessi concetti di potere, sovranità, democrazia, rappresentatività, nati 300 anni fa. Ma quella che aveva davanti Rousseau era una società omogenea, autarchica, con una forma rappresentativa che escludeva le donne, un’unità culturale e religiosa e scarse tecnologie. Dobbiamo chiederci quanto siano ancora appropriati per organizzare la convivenza nelle società del XXI secolo...». Daniel Innerarity (Bilbao, 1959) ha appena pubblicato Una teoria della democrazia complessa (Castelvecchi, pagine 384, euro 29,00), dove propone “un esercizio di rianimazione della democrazia in tempi incerti”; in parallelo è uscito in Spagna La sociedad del desconocimiento (Galaxia Gutenberg) in cui il filosofo offre chiavi per comprendere il ruolo della conoscenza nella società digitale globalizzata.

Lei evidenzia che viviamo nell’era dell’incertezza e dell’insicurezza. In cosa si distingue dalle precedenti?

«Come nella società della conoscenza, continua a essere necessario il sapere per risolvere i problemi. Ma, davanti alla dimensione gigantesca di quelli attuali, ai rischi e alle incertezze, dobbiamo gestire in qualche modo anche l’ignoranza, la conoscenza che non conosciamo, utilizzarla come una risorsa».

Riflette sulla fine della mediazione sociale da parte di partiti, chiese, sindacati... E sulla conseguente “deregulation del mercato cognitivo” che ha portato a democratizzare l’informazione ma, al contempo, a un ambiente informativo caotico. Il progresso ha comportato una serie di effetti boomerang?

«Ogni processo di emancipazione è accompagnato da un aumento della possibilità di scelta. Se c’è più sapere a disposizione, la conseguenza immediata è un ampliamento dello spazio del possibile e una minore sicurezza nel conosciuto, nella tradizione, nell’autorità riconosciuta. Questo processo, che è enormemente positivo, perché nessuno vorrebbe tornare a un sapere che limiti le opportunità di elezione, provoca molte patologie, disorientamento, angoscia. Oggi non abbiamo un problema di informazione, ma di orientamento».

Lei scrive che in questo smarrimento “ci affidiamo a mediazioni più invisibili, come l’algoritmo di Google o le reti sociali, più sottili forme di dominio”. In mancanza di filtri, come si distingue il sapere dall’informazione spazzatura?

«Ci sono due procedimenti. Uno in cui ognuno comprovi l’affidabilità di tutte le informazioni che riceve, completamente irrealista, perché supera le capacità individuali. L’altro è costruire meccanismi di fiducia ragionevoli, com’è nella natura umana: razionali, suscettibili di modifica, revisionabili. Solo così avanzeremo cognitivamente. Oggi sono più che mai necessarie persone, istituzioni che stabiliscano filtri e criteri, ma non alla maniera delle società tradizionali, riponendo fiducia cieca in un leader, bensì pluralizzando le fonti di informazione».

Di fronte alle crisi fare i conti con la funzione svolta dall’ignoranza significa dare ragione a chi nega l’evidenza?

«Assolutamente no. Comprendere i motivi per cui le persone rifiutano la razionalità non equivale a dare loro ragione. A volte presentiamo la politica basata sull’evidenza scientifica con un certo orgoglio e disprezzo non tanto verso i negazionisti radicali, quanto verso la pluralità di valori che devono continuare a essere vigenti, anche se parliamo di evidenze. Una cosa è che dal punto di vista scientifico sappiamo molto sul cambio climatico, che è un fatto. Altra è che le misure, i modelli e la proporzione di sacrifici da fare per contrastarlo siano presentati come indiscutibili. D’altra parte, non c’è unanimità fra gli scienziati».

In Una teoria della democrazia complessa rileva che mentre la scienza ha cambiato buona parte dei suoi paradigmi, la politica non ha saputo altrettanto: quali sono i vecchi strumenti da rottamare?

«Sarebbe più rapido rispondere con la domanda contraria: quali concetti della politica sono ancora utili? Va riscattato il nucleo normativo della democrazia e l’autogoverno dei cittadini liberi, perché sopravviva in contesti per i quali questi concetti non erano stati pensati. Poiché saremo in buona misura governati da algoritmi, perché l’attuale distinzione fra nazionale e transnazionale è molto confusa, le società sono enormemente plurali, le tecnologie molto difficili da regolare. A volte la destra parla di “adattamento” al mondo che viene, e la sinistra di “resistenza”. Sono due strategie inadeguate. C`è bisogno di uno sforzo per ripensare gli ideali irrinunciabili».

Nella crescente interdipendenza, lei si appella a un’etica dei sistemi e delle organizzazioni, più che individuale. A quali valori non possiamo rinunciare?

«Non sottovaluto affatto le virtù personali. Intendo dire che quando si tratta di disegnare la governance, è molto più utile immaginare sistemi nei quali le proprietà individuali siano meno rilevanti di quelle sistemiche, la cui efficacia dipende da che siano governati dalle persone più adeguate. Viviamo in società che hanno generato una complessità di attori, meccanismi, procedimenti in virtù dei quali è poco verosimile che un leader malvagio o provvidenziale realizzi grandi imprese. La democrazia in buona misura è delimitare il potere di chi è al governo. Il che circoscrive molto la capacità di governanti nefasti di fare grandi danni, sebbene si paghi col fatto che non possiamo aspettarci grandi cose dalla politica concorrenziale. Le ultime elezioni in Italia, ad esempio, non sono così trascendentali come sembrerebbe. In un Paese che è in Europa, nella Nato, nell’euro, le cui università sono parte della comunità scientifica internazionale, le cui imprese operano nel commercio mondiale, la capacità di azione di chi arriva al potere è limitata. Se dovessi salvare un valore su tutti, sarebbe senza dubbio il pluralismo. È il rispetto dell’altro, il dibattito aperto, la libertà di espressione, l’inclusione di voci diverse ciò che assicura la razionalità. Le nostre società, molto pluraliste, hanno il grande vantaggio di rendere più difficile la persistenza nell’errore. Se non possiamo arrivare all’intera verità – che come diceva Rawls è un’aberrazione, perché incompatibile con la cittadinanza democratica – possiamo almeno evitare di insistere nell’errore. L’intelligenza dei sistemi, che oggi ci sembra naturale, è una grande conquista evolutiva nell’Europa del XXI secolo. Il pluralismo non è la soluzione, ma senza pluralismo non c’è soluzione».

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: