venerdì 1 aprile 2022
Dopo Shakespeare e Leopardi, il filosofo Massimo Donà affronta il grande romantico tedesco, che nelle opere ha attinto per tutta la vita ai temi della fanciullezza. E ha dato loro portata universale
Johann Heinrich Tischbein, “Goethe nella campagna romana”, 1787

Johann Heinrich Tischbein, “Goethe nella campagna romana”, 1787

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Incommensurabile, giudicava Goethe il suo Faust e parimenti inesauribile è il confronto con la sua opera e la sua vita. Ora la monografia di Massimo Donà, Una sola visione. La filosofia di Johann Wolfgang Goethe, edita da Bompiani (pagine 366, euro 14,00), è un nuovo tassello nella ricerca sul principale autore tedesco. Si tratta di un testo critico impegnativo che conferma l’immensità dell’opera e del pensiero goethiani, proponendo nuovi orizzonti, segnalando scoperte, indicando approfondimenti possibili. Filosofo teoretico, Donà si è già confrontato con il nesso tra filosofia e letteratura in due precedenti saggi, uno su Leopardi e l’altro su Shakespeare. Gli mancava Goethe per completare questo sublime trittico di pensiero e poesia.

Donà prepara il campo con argomentazioni di filosofia teorica, verso cui noi lettori profani possiamo solo imparare almeno a impostare il ragionamento. Successivamente il suo discorso si incentra su tre nodi dell’opera goethiana: Le affinità elettive, il Faust e la Metamorfosi delle piante, che, come un fil rouge, attraversa il saggio e a ragione poiché per Donà l’opera goethiana è sostenuta dalla realtà della metamorfosi, che innerva la scrittura e la vita di Goethe fin da giovane. Anzi potremmo anticipare questa tensione interiore agli anni dell’infanzia quando celebrava un personale culto del sole nella sua cameretta. Culto bruscamente interrotto da un principio d’incendio. Non si scherza col fuoco, imparò il fanciullo, che verso i vent’anni rischiò la vita per un focolaio polmonare. Dato per spacciato fu salvato dal Doctor Metz, frequentatore assiduo del circolo pietistico che si riuniva a casa Goethe e in cui la devozione cristiana s’intrecciava anche con pratiche di magia “bianca”. Insomma Goethe in virtù di una polvere alchemica, si salvò e ne fu molto impressionato tant’è vero che questa apertura all’ermetismo – come ricorda Donà – riaffiora sempre nella sua opera e massimamente nel Faust, come pure nelle Affinità Elettive, che si fondavano su una teoria chimico- psicologica allora molto diffusa. Se dunque la giovanile pansofia è la sua “sola visione”’, ciò conferma l’intuizione di Thomas Mann che vedeva la chiave interpretativa dell’opera di Goethe nei suoi "Anni di formazione" giovanili: «Goethe ha attinto per tutta la sua vita alla fanciullezza, non fu un uomo di sempre nuovi tentativi e invenzioni: l’opera sua consiste essenzialmente nel riprendere e rielaborare concetti risalenti al primo periodo della sua vita e che egli ha portato con sé attraverso tanti lustri, riempiendoli di tutta la ricchezza della sua esistenza, sino a dar loro vastità universale». Questa annotazione sull’incidenza minacciosa della giovinezza spiega la mobilità spirituale del poeta, affascinato, come Faust, da una concezione magica del mondo, ma anche consapevole dei rischi interiori di queste esperienze estreme, sicché mise in atto una difesa dai turbamenti giovanili, quelli che si espressero nella prima grande stagione poetica dello Sturm und Drang e che trovarono nei Dolori del giovane Werther la loro sublime, ancorché distruttiva conferma. Goethe si distaccò da tali insidie interiori accettando di diventare il braccio destro del Duca Carl August a Weimar, assumendo responsabilità e doveri che lo salvarono dai devastanti abissi nichilistici giovanili. Tentò persino di rinnegare se stesso in una professione di fede neoclassica, cui pur siamo debitori di stupende poesie. Ma in ultima istanza fu lui stesso a sparigliare le carte con Le Affinità Elettive del 1809 e definitivamente con il Faust, iniziato probabilmente nel 1775 ancora nel periodo stürmeriano e portato avanti fino alla morte, con lunghi periodi di “ibernazione” e improvvise rinascite.

Il pensiero profondo di Goethe è quello della continua metamorfosi, come provano La metamorfosi delle piante e i suoi scritti botanici, che interessarono Joseph Beuys, confermando fin dagli Anni Sessanta del ’900 l’attualità delle meditazioni scientifiche goethiane. La metamorfosi era stata tratteggiata, ma non realizzata nello Sturm und Drang come mostra il suicidio di Werther. Fu il suo “fratello maggiore”, Faust, che, pur accettando le sfide di Mefistofele, il suo alter ego, le elude con quella energia “incommensurabile” della sua tensione interiore, che è il motore interno, la ragione stessa delle umane metamorfosi. E la metamorfosi travolge la rigida concezione illuminista, che in Germania – salvo qualche rara eccezione, come Lessing – era portata avanti da professori, non tra i più convincenti campioni di quel rinnovamento culturale, proposto dalla raison. Anche per questa debolezza dello schieramento razionalista, fu in Germania che nacque la reazione romantica, che proseguì creativamente l’esperienza della devozione pietistica e del travaglio stürmeriano. È noto lo scontro generazionale tra Goethe e i giovani romantici, eppure la grandezza del genio è nella libertà di contraddirsi come avvenne con Le Affinità Elettive, con il Faust, nonché nella concezione anti-newtoniana della sua Teoria dei Colori del 1810. Questo radicale, ancorché silenzioso cambiamento di paradigma è stato ben osservato da Donà: «Faust viene disegnato da Goethe come l’eroe del mutamento e della metamorfosi... È l’emblema stesso di un’insaziabile volontà di conoscenza e di esperienza; del non potersi mai fermare e ritenersi appagato. L’emblema del nuovo uomo romantico che sente e ricorda la propria radice divina e non può fare a meno di realizzarla ». Una realizzazione che rimane aperta a nuovi orizzonti, nuove sconfitte, nuovi amori e nuove conoscenze in un processo che prosegue al di là della breve esperienza terrena in una dimensione spirituale, in cui la monade faustiana continua a conoscere, a progredire verso le gerarchie celesti. Così crolla l’illuminismo. Oppure no, ché Faust continua ad aspirare alla luce, a perseguire «virtute e conoscenza», nuovo ed eterno Ulisse, simbolo estremo della coscienza dell’uomo.

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