mercoledì 22 dicembre 2010
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Filosofa, femminista, madre di una giovane donna affetta da una profonda disabilità men­tale. Eva Feder Kittay ci ha messo più di vent’anni a coniugare le sue identità e a venire a capo delle lo­ro contraddizioni. Il femminismo le sembrava ancorato alla rivendi­cazione di conquistare i diritti de­gli uomini. E non le bastava. Nella filosofia che insegnava trovava la­cune, soprattutto l’impossibilità di collocare all’interno della filosofia morale occidentale il ruolo sociale del ritardo cognitivo. Come madre, era semplicemente sopraffat­ta dagli eventi. Dover prendersi cura di sua figlia Sesha, «per quasi tutta la mia vita adulta», l’ha co­stretta a riflettere sulla fatica di donarsi senza sosta, con gioia, paura e preoccupazione mentre il resto della società ignorava il suo sforzo. Ed è stata proprio la figlia a dare alla docente di filosofia all’u­niversità statale di New York la chiave di lettura della sua esperienza. Come spiega lei stessa, «vi­vere con Sesha mi ha fatto capire che molti dei concetti che trovavo nei libri di filosofia dovevano esse­re confutati e che il femminismo aveva perso una strada importan­te. Mi ha motivata a scrivere». Ne è nato, nel 1998, La cura dell’amore. Donne, uguaglianza, dipendenza, finalmente tradotto in italiano e pubblicato da Vita e pensiero. Il li­bro mostra come la buona filoso­fia indichi la strada per trovare buone soluzioni concrete, ma an­che come queste soluzioni per realizzarsi abbiano bisogno di un allineamento di forze politiche, e­conomiche e demografiche non comune. Professoressa Kittay, che cosa è cambiato negli Stati Uniti in me­rito alla cura e al ruolo dei disabi­li, dalla pubblicazione del suo li­bro? «Non molto. C’è stato uno sforzo per avere una legge che fornisca più aiuto ai reduci. E nella riforma della sanità c’è una norma che of­fre la possibilità di mettere da par­te una piccola percentuale dello stipendio per cinque anni. Alla fi­ne si acquisisce il diritto a 50 dol­lari al giorno per la propria cura se ci si troverà in condizioni di disa­bilità. Ma non c’è stato un vero movimento da parte delle famiglie o dei disabili stessi per provocare reali cambiamenti che la maggio­ranza percepisce come economicamente svantaggiosi. E visto il clima di questi mesi, dubito che succederà molto. Sono evoluzioni molto lente, provocate da cambia­menti demografici. Oppure da or­ganizzazioni politiche molto effi­caci ». Come mai manca negli Usa un movimento coeso di assistenti e famiglie di disabili? «È difficile da spiegare. Il femmini­smo non si è sviluppato in quella direzione. Non ha compreso che la reale conquista per le donne sa­rebbe di essere messe in condizio­ne di poterci dedicare alla cura dei nostri cari, se lo dobbiamo fare, senza oneri finanziari insostenibili e senza dover rinunciare per sem­pre a un lavoro. Sempre più donne lavorano e la maggior parte deve fare i conti con la cura di figli, ge­nitori e familiari disabili. Ci sono eserciti di donne che si portano addosso questa enorme fatica. Non so fino a che punto ce la fa­ranno ». L’invecchiamento della popola­zione potrebbe provocare una ri­flessione sulla cura delle persone non indipendenti? «Sì, negli Stati Uniti la questione verrà a galla con la perdita d’indi­pendenza dei baby boomers, la ge­nerazione nata nel decennio suc­cessivo la seconda guerra mondia­le. Finora la loro cura è stata affi­data a immigrati sottopagati. Ma con l’aumento degli anziani e il gi­ro di vite sugli immigrati irregolari il nodo verrà al pettine. È un pro­blema che va affrontato, o la qua­lità della vita di tutti ne soffrirà». Il messaggio chiave del suo libro è però che occorre andare più a fondo, e cambiare il contratto che lega gli individui in società… E non vedere i disabili come un pe­so ma come una parte della so­cietà. «Rivedere il concetto di dipenden­za. Il motivo principale per cui ci prendiamo la briga di avere regole di convivenza è proprio quello: la capacità di fornirci mutuo aiuto. Deve cambiare il modello di so­cietà come interscambio fra indi­vidui indipendenti e autosuffi­cienti, che è diventato il pilastro delle società occidentali. Ci riu­niamo invece perché ammettiamo che tutti siamo dipendenti e che ci sono fasi della vita in cui lo siamo di più e persone che lo sono più a lungo di altre». Dunque secondo lei la cura dei bambini, degli anziani e dei disa­bili sono collegate? «Sì, non sono gruppi di interesse in competizione per i soldi pub­blici. Se assumiamo questa prospettiva diventa più facile creare le strutture che ci aiutano a prender­ci cura di noi stessi e degli altri. La componente della disabilità però resta quella più difficile da far ac­cettare». È anche una questione di minore visibilità dei disabili? «Certamente. I disabili negli Usa sono quasi invisibili, soprattutto in tv. In questo risiede un enorme potenziale di cambiamento. An­che per i media. Di recente un ar­ticolo sul Wall Street Journal dice­va che “bisogna essere una troglo­dita che sbava su una sedia a ro­telle per non capire l’importanza di questa fase politica”. Un riferi­mento offensivo fatto così, con leggerezza». Ci parli di sua figlia. «Vivo da 40 anni l’esperienza di u­na continua assistenza. Molti ge­nitori lo fanno per qualche anno. Per moltissimi come me non finirà mai. Eppure molti rifuggono da questo concetto. Persino la comu­nità dei disabili lo rifiuta. Preferi­scono parlare di conquista dell’in­dipendenza. Ma questo non fa che perpetuare l’invisibilità e lo sfrut­tamento degli assistenti, che siano familiari o personale pagato». E di solito sono donne. «Sì, ma i cambiamenti nella vita delle donne almeno hanno porta­to questo ruolo in pubblico. Ora non è nascosto fra le mura di casa. E ci accorgiamo con stupore che la cura dei disabili è costosa, per­ché l’abbiamo sempre considerata gratuita. Perché c’era sempre qualche madre o moglie che lo fa­ceva in silenzio».
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