Filosofa, femminista, madre di una giovane donna affetta da una profonda disabilità mentale. Eva Feder Kittay ci ha messo più di vent’anni a coniugare le sue identità e a venire a capo delle loro contraddizioni. Il femminismo le sembrava ancorato alla rivendicazione di conquistare i diritti degli uomini. E non le bastava. Nella filosofia che insegnava trovava lacune, soprattutto l’impossibilità di collocare all’interno della filosofia morale occidentale il ruolo sociale del ritardo cognitivo. Come madre, era semplicemente sopraffatta dagli eventi. Dover prendersi cura di sua figlia Sesha, «per quasi tutta la mia vita adulta», l’ha costretta a riflettere sulla fatica di donarsi senza sosta, con gioia, paura e preoccupazione mentre il resto della società ignorava il suo sforzo. Ed è stata proprio la figlia a dare alla docente di filosofia all’università statale di New York la chiave di lettura della sua esperienza. Come spiega lei stessa, «vivere con Sesha mi ha fatto capire che molti dei concetti che trovavo nei libri di filosofia dovevano essere confutati e che il femminismo aveva perso una strada importante. Mi ha motivata a scrivere». Ne è nato, nel 1998,
La cura dell’amore. Donne, uguaglianza, dipendenza, finalmente tradotto in italiano e pubblicato da Vita e pensiero. Il libro mostra come la buona filosofia indichi la strada per trovare buone soluzioni concrete, ma anche come queste soluzioni per realizzarsi abbiano bisogno di un allineamento di forze politiche, economiche e demografiche non comune.
Professoressa Kittay, che cosa è cambiato negli Stati Uniti in merito alla cura e al ruolo dei disabili, dalla pubblicazione del suo libro? «Non molto. C’è stato uno sforzo per avere una legge che fornisca più aiuto ai reduci. E nella riforma della sanità c’è una norma che offre la possibilità di mettere da parte una piccola percentuale dello stipendio per cinque anni. Alla fine si acquisisce il diritto a 50 dollari al giorno per la propria cura se ci si troverà in condizioni di disabilità. Ma non c’è stato un vero movimento da parte delle famiglie o dei disabili stessi per provocare reali cambiamenti che la maggioranza percepisce come economicamente svantaggiosi. E visto il clima di questi mesi, dubito che succederà molto. Sono evoluzioni molto lente, provocate da cambiamenti demografici. Oppure da organizzazioni politiche molto efficaci ».
Come mai manca negli Usa un movimento coeso di assistenti e famiglie di disabili? «È difficile da spiegare. Il femminismo non si è sviluppato in quella direzione. Non ha compreso che la reale conquista per le donne sarebbe di essere messe in condizione di poterci dedicare alla cura dei nostri cari, se lo dobbiamo fare, senza oneri finanziari insostenibili e senza dover rinunciare per sempre a un lavoro. Sempre più donne lavorano e la maggior parte deve fare i conti con la cura di figli, genitori e familiari disabili. Ci sono eserciti di donne che si portano addosso questa enorme fatica. Non so fino a che punto ce la faranno ».
L’invecchiamento della popolazione potrebbe provocare una riflessione sulla cura delle persone non indipendenti? «Sì, negli Stati Uniti la questione verrà a galla con la perdita d’indipendenza dei baby boomers, la generazione nata nel decennio successivo la seconda guerra mondiale. Finora la loro cura è stata affidata a immigrati sottopagati. Ma con l’aumento degli anziani e il giro di vite sugli immigrati irregolari il nodo verrà al pettine. È un problema che va affrontato, o la qualità della vita di tutti ne soffrirà».
Il messaggio chiave del suo libro è però che occorre andare più a fondo, e cambiare il contratto che lega gli individui in società… E non vedere i disabili come un peso ma come una parte della società. «Rivedere il concetto di dipendenza. Il motivo principale per cui ci prendiamo la briga di avere regole di convivenza è proprio quello: la capacità di fornirci mutuo aiuto. Deve cambiare il modello di società come interscambio fra individui indipendenti e autosufficienti, che è diventato il pilastro delle società occidentali. Ci riuniamo invece perché ammettiamo che tutti siamo dipendenti e che ci sono fasi della vita in cui lo siamo di più e persone che lo sono più a lungo di altre».
Dunque secondo lei la cura dei bambini, degli anziani e dei disabili sono collegate? «Sì, non sono gruppi di interesse in competizione per i soldi pubblici. Se assumiamo questa prospettiva diventa più facile creare le strutture che ci aiutano a prenderci cura di noi stessi e degli altri. La componente della disabilità però resta quella più difficile da far accettare».
È anche una questione di minore visibilità dei disabili? «Certamente. I disabili negli Usa sono quasi invisibili, soprattutto in tv. In questo risiede un enorme potenziale di cambiamento. Anche per i media. Di recente un articolo sul Wall Street Journal diceva che “bisogna essere una troglodita che sbava su una sedia a rotelle per non capire l’importanza di questa fase politica”. Un riferimento offensivo fatto così, con leggerezza».
Ci parli di sua figlia. «Vivo da 40 anni l’esperienza di una continua assistenza. Molti genitori lo fanno per qualche anno. Per moltissimi come me non finirà mai. Eppure molti rifuggono da questo concetto. Persino la comunità dei disabili lo rifiuta. Preferiscono parlare di conquista dell’indipendenza. Ma questo non fa che perpetuare l’invisibilità e lo sfruttamento degli assistenti, che siano familiari o personale pagato».
E di solito sono donne. «Sì, ma i cambiamenti nella vita delle donne almeno hanno portato questo ruolo in pubblico. Ora non è nascosto fra le mura di casa. E ci accorgiamo con stupore che la cura dei disabili è costosa, perché l’abbiamo sempre considerata gratuita. Perché c’era sempre qualche madre o moglie che lo faceva in silenzio».