mercoledì 25 aprile 2012
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​Mi è capitato recentemente di vedere dal vivo quello che è ormai diventato il simbolo della città di Chicago: il Cloud Gate, meglio noto come The Bean, il fagiolo. Si tratta di una grande struttura in acciaio inossidabile, celebre opera dell’altrettanto celebre scultore Anish Kapoor. Collocato in posizione strategica nel Millennium Park, il "fagiolo" ha un grande impatto visivo: la sua superficie curva e liscia riflette il cielo e gli imponenti grattacieli circostanti, sfide prometeiche dell’uomo che ha rinunciato ai campanili, ma nello stesso tempo cattedrali laiche che non possono non accompagnare lo sguardo verso l’alto. E riflette anche le persone che si affollano intorno con le loro macchine fotografiche, e si fanno immortalare accanto, o sotto, questa scenografica "porta" che congiunge la città e il parco, la tecnica e la natura. Il confine tra la realtà e la sua immagine sulle pareti a specchio è molto labile, così come quella tra interno ed esterno dell’opera: le superfici ricurve riflettono contemporaneamente il dentro e i fuori, i grattacieli  e le persone. Ma la cosa che colpisce di più, stando all’interno della scultura, è ciò che si vede guardando verso l’alto: un cerchio (che l’artista chiama <+corsivo>omphalos<+tondo>, ombelico) nel quale si può contemplare la propria immagine riflessa, incapsulata nel "ventre" dell’opera. Questa esperienza mi è parsa una metafora efficace della rete, o almeno di quello che essa oggi può, o rischia di essere: una superficie liscia e continua, senza delimitazioni tra dentro e fuori, che ci restituisce un’immagine del mondo e di noi che possiamo non solo guardare, ma anche toccare, ma che alla fine ci chiude in un cerchio autoreferenziale, in cui non vediamo altro che noi stessi. Tutto intorno a te, come recitava un celebre slogan pubblicitario...Ma c’è anche un’altro modo possibile di vivere la rete oggi. Un modo che ha cominciato a prendere forma nel dibattito pubblico e nella consapevolezza dei tanti, nativi e immigrati, che si affacciavano affascinati e insieme preoccupati a questa "estensione" del nostro mondo, esattamente due anni fa, con quell’evento pionieristico e così "generativo" che è stato il convegno "Testimoni Digitali" (22-24 aprile 2010). Pionieristico perché si avvertiva l’urgenza di affrontare, non come singoli ma come comunità di credenti, questo ambiente sempre più centrale, soprattutto per i giovani (Facebook, in Italia, era esploso nel 2008). Un dibattito polarizzato tra tecnoentusiasti (la rete come portatrice di democrazia, laboratorio di identità, regno delle relazioni finalmente libere dai vincoli spaziotemporali) e tecnoallarmati (la rete come luogo di doppiezza, che ci estrania dalla vita reale, che favorisce la costruzione di identità fittizie e simulacri di relazioni, trappola che ci risucchia in una dipendenza alienante) non pareva un buon punto di partenza per capire, senza pregiudizi, come affacciarsi al mondo digitale e valorizzarne le componenti umanizzanti. Così la Cei, con una lungimiranza che si è rivelata veramente notevole, pensò di convocare a Roma studiosi di media, teologi e "praticanti" che avevano già qualche esperienza da raccontare, per un momento di vera comunicazione, uno scambio cooperativo dei rispettivi saperi ed esperienze, per trovare criteri di interpretazione e orientamento, come momento di un cammino comune. Tanti aspetti sono emersi da li, che costituiscono altrettanti punti di non ritorno, orami acquisiti: il fatto che, come ogni medium, la rete non è uno strumento, ma un’estensione delle nostre potenzialità conoscitive e relazionali, un territorio di esperienza, un ambiente; che il virtuale non è contrapposto al reale, ma lo estende; che la rete può essere un luogo per avvicinare i lontani, e rompere i confini stretti delle nostre cerchie sociali abituali. Ma due cose a mio avviso sono rimaste come pietre su cui tutto il ricco e vivacissimo cammino che da li è scaturito ("Abitanti Digitali" dell’anno successivo, "Diocesi in rete", Il nuovo corso Anicec e il convegno con gli animatori, i siti diocesani e tanto altro) ha potuto trovare una solida base di appoggio. La prima è che la rete non è solo un dispositivo tecnico da utilizzare, ma è un luogo antropologico da abitare. E abitare è il modo tipicamente umano, simbolico e non solo strumentale, di esistere. Ed è stato bello scoprirlo grazie alla ricerca sul modo in cui i giovani la "vivono": è grazie a loro che questo aspetto cruciale è diventato chiaro. La seconda riguarda il rapporto tra immanenza e trascendenza: è vero che la rete si presenta come un cerchio magico che può contenere ogni cosa; come una "abbondanza senza fine", é stata definita. Ma è anche vero che il desiderio di pienezza che essa accende non può trovare lì la sua risposta, come ricordava padre Spadaro nella sua relazione, e che riusciamo a trarre il massimo dalla rete quando non ne facciamo un orizzonte assoluto, ma apriamo, nella sua orizzontalità, uno spiraglio che lasci entrare la luce della grazia. Due verità che, a distanza di due anni, si sono rivelate una sola: la rete può essere un luogo antropologico se e perché si apre alla trascendenza, a quel "di più" che essa di per sé non può dare. E questo è il contributo umanizzante che la voce dei cattolici può offrire a questo tempo.Chiudo allora con un’altra immagine. In molti templi la sommità della cupola è aperta: un foro che si chiama oculos, e che consente alla luce di entrare, alla terra di restare in comunicazione con il cielo. La fede può essere quella forza che "buca" la rete, e ci libera dalla trappola dell’autoreferenzialità e dallo sguardo su noi stessi e sul nostro "ombelico", per darci un "occhio" capace di ricevere la vera luce. Solo così saremo veramente in comunione, e non solo in connessione, tra noi.
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