venerdì 10 marzo 2023
In un saggio di Anna Linda Callow la storia della lingua identitaria degli ashkenaziti, usata nell’Italia rinascimentale, portata al Nobel da Singer. E che conosce un revival nelle serie tv
Una scena dell’acclamata serie Netflix “Unorthodox”

Una scena dell’acclamata serie Netflix “Unorthodox” - archivio

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Onore, cioè stima e gratitudine, a chi scrive un libro che rempie un vuoto, a chi produce un’opera che mancava sul mercato delle idee. E in Italia mancava un testo di intelligente divulgazione sulla storia della lingua yiddish, il “gergo” (ma è un’autodefinizione) che combina elementi di ebraico, di antico tedesco e di slavo, scritto in caratteri ebraici e impiegato dagli ebrei dell’Europa centrale e orientale, gli ashkenziti, nella loro vita quotidiana per circa dieci secoli. Il suo valore culturale e letterario venne riconosciuto solo nel 1978 con il Premio Nobel assegnato a Isaac Bashevis Singer, lo scrittore in questo idioma forse più noto al grande pubblico. A riempire tale vuoto ci ha pensato Anna Linda Callow, docente di ebraico alla Statale di Milano e traduttrice (anche) dallo yiddish, che ha appena pubblicato con Garzanti un volume intitolato La lingua senza frontiere. Fascino e avventure dello yiddish (pagine 226, euro 18,00), un excursus completo dalle sue prime attestazioni nel XIII secolo, ma evidentemente lo si parlava già prima, fino appunto all’exploit del XX secolo, paradossalmente in contemporanea alla distruzione (in ebraico shoah) del popolo e del mondo stesso che quella lingua avevano creato e fatto vivere per secoli, al di là dei cangianti confini politici delle nazioni europee. Il fascino che l’autrice ha subìto nei suoi anni di formazione e di studio lo tramette ora ai lettori, i quali restano ammaliati dallo stile al contempo erudito e arguto, profondo pur senza pedanteria, di quest’opera che si legge come un romanzo storico e nella quale la scrittrice vive essa stessa da personaggio. Gli inizi dello yiddish? Sembrano e non possono non essere avvolti nella bruma della valle del Reno dove nell’XI secolo erano già attive importanti comunità ebraiche, le cui scuole talmudiche formarono quel Rashi di Troyes gran commentatore dei testi sacri del giudaismo, e tragicamente visitate dall’angelo della morte nei panni dei cavalieri della prima crociata nel 1096. Da quel momento lingua e (dis)avventure dei figli e delle figlie di Israele nel nord Europa si intrecciano, nella buona come nella cattiva sorte, lungo binari diversi e raramente paralleli rispetto alla lingua dei loro correligionari sefarditi, il ladino (da non confondersi con quello dolomitico), parlata in cui l’ebraico si mischia con lo spagnolo. Se i sefarditi si adattarono ben presto ad usare l’arabo, l’idioma delle società in cui vivevano (sebbene scrivessero anche importanti opere filosofiche in un dialetto loro, il giudeo-arabo), gli ashkenaziti invece restarono fedeli all’yiddish, lingua che poteva servire sia in cucina, sia nelle preghiere (per le donne), sia nell’intrattenimento. Per quest’ultimo uso si veda l’eccezionale romanzo cavallereo sco, in ottava rima, noto come Bovo D’Antona, scritto in yiddish a Padova da Elye Bokher tra XV e XVI secolo e pubblicato nel 1541 1541 (anni fa ne è uscita un’edizione critica curata da Claudia Rosenzweig). L’yiddish era dunque parlato, e scritto, anche nell’Italia del Rinascimento. Le vicissitudini del secolo degli esuli da Spagna e Portogallo, della Riforma e infine dei ghetti recisero i rapporti tra penisola italica e Ashkenaz e quella lingua venne via via obliata; non così nell’Europa dell’Est dove in yiddish parlavano e scrivevano tanto i seguaci dell’eretico Shabbatay Zvi quanto gli entusiasti aderenti al movimento chassidico. Il volume della Callow percorre per intero le tappe principali di questa storia, fino al primo conflitto interno al giudaismo, quello tra illuministi e tradiziona-listi, che diviene guerra linguistica, pro contro lo yiddish, aborrito come segno di decadenza sia da chi auspicava che gli ebrei parlassero solo “in puro tedesco” sia da chi, controcorrente, sognava che parlassero, anzi che tornassero a parlare “in puro ebraico”. Il popolo ashkenazita, fino alla prima metà del XX secolo, sembrò ignorare il conflitto e continuò ad esprimersi “in puro yiddish”, che grazie alle sue impurità era divenuto una lingua ricca di metafore e di poesia, carica di una forte identità capace di auto-ironia oltre che di sferzante umorismo, portatrice di bobemayses, letteralmente “favole della nonna”, come spiega Callow (forse proprio dal titolo dell’opera di Elye Bokher), la stessa lingua che ha immortalato la dura vita degli stethlech, i villaggi ebraici dell’est Europa, negli idillici quadri di Chagall e nei capolavori dei tre Singer, Schalom Aleykem, Chayim Grade e Avrom Sutzkever, per citare i maggiori. Nella sua precisa ricostruzione Callow evoca eventi e personaggi che hanno determinato, specie all’inizio del Novecento, la salvazione dello yiddish come lingua “ebraica” (del resto, è questo il significato del termine), come la conferenza di Czernowitz del 1908 e come quel Natan Birnbaum la cui biografia è il miglior attestato dei travagli spirituali e politici di un mondo ebraico alla ricerca delle propria anima, nell’arco temporale che va da metà XIX a metà XX secolo. E mentre racconta quelle storie, l’autrice ci spiega come lei stessa si sia innamorata di questa lingua, oltre che dell’ebraico (sul quale ha scritto anni fa il volume La lingua che visse due volte, sempre per Garzanti) e come abbia abbracciato la saggezza un po’ stoica di Tevye il lattivendolo, protagonista dell’omonimo capolavoro, ovviamente in yiddish, di Schalom Aleykem. Di recente lo yiddish ha fatto una bella rentrée attraverso due serie televisive di successo, con Netflix, dal titolo Shtisel e Unorthodox, dove la scelta di parlarlo assume due significati diversi e contrapposti: a New York, al posto dell’inglese, serve a contestare la cultura americana a favore della “distinzione mosaica”, per così dire; a Gerusalemme oggi, al posto dell’ebraico, aiuta per smarcarsi dal sionismo e da ogni forma di ebraismo laico, illuminista. Cambiano i contesti storici e i luoghi, ma siamo sempre dinanzi al dilemma inaugurato nel XVIII secolo, un dilemma che è croce e delizia di tutto l’ebraismo moderno e contemporaneo, così particolare e insieme universale da essere divenuto specchio di molta parte della crisi della cultura occidentale. Anche leggendo la letteratura yiddish in traduzione, dice Callow, «si percepisce il travaglio di un’epoca, l’urgenza di un pensiero, il desiderio di conoscere e di spiegarsi, ossia il destino più alto dell’essere umano ». Sta forse qui il fascino di una lingua che guarda sì al cielo, ma con i piedi sempre ben saldi sulla terra.

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