domenica 4 dicembre 2022
Catalogate tutte le opere in ceramica del grande artista che realizzò molte opere di tema cristiano, tra cui tre Vie Crucis: fra Crocifissioni, Madonne, Cristi, angeli eseguì circa trecento pezzi
Particolare di una formella della “Via Crucis” realizzata da Lucio Fontana nel 1957 e conservata presso il Museo San Fedele a Milano

Particolare di una formella della “Via Crucis” realizzata da Lucio Fontana nel 1957 e conservata presso il Museo San Fedele a Milano - © Luca Casonato / Museo San Fedele

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Se si facesse una somma dei pezzi in terracotta, in gran parte policroma, con tecnica a ingobbio o riflessata, forse potrebbe stupire qualcuno apprendere che fra crocifissioni, Madonne, Cristi, angeli e Vie Crucis sono circa trecento le sculture ceramiche prodotte da Lucio Fontana lungo oltre un decennio della sua operosa vita d’artista. Eppure molti ancora oggi non hanno di Fontana l’immagine di un autore che si sia calato nell’esperienza del sacro cristiano con una particolare partecipazione, ovvero con qualcosa di prossimo al sensu fidei. Ancora nel 1986, quando Giorgio Mascherpa allestì al Centro San Fedele di Milano la retrospettiva sul Fontana e il sacro dove, tra l’altro, si esponeva la Via Crucis realizzata per la cappella dell’Istituto delle Carline a Milano nel 1955, un critico fermamente laico come Guido Ballo scrisse sul “Corriere della sera” quanto fosse urgente «chiarire un equivoco diffuso: la religiosità in arte non nasce dal motivo… è una spinta più profonda, totale, che si può manifestare in opere apparentemente non religiose ». Quindi concludeva: «Nel far sentire una spazialità “oltre il visibile”, Lucio Fontana, laico, era spinto da profonda religiosità: per questo continuo rapporto con l’infinito e il divenire della vita». Nell’Italia del discusso compromesso storico e segnata dall’assassinio di Aldo Moro, Ballo da storico e critico d’arte militante d’impronta socialista e figura chiave negli sviluppi dell’universo artistico italiano, era fermamente convinto che bisognasse distinguere e che l’opera d’arte testimonia dell’artista che l’ha prodotta. Ballo aveva conosciuto Fontana nel 1947, quando l’artista era rientrato dall’Argentina a guerra conclusa, e aveva stretto con lui un sodalizio intellettuale tra i più solidi nel panorama italiano. La data è molto importante, perché in quell’anno Lucio Fontana esegue, tra l’altro, una Via Crucis smaltata, dipinta e lustrata, che emerge con colori esuberanti e preziosi: giallo, rosso, amaranto, verde, bianco, oro e nero. Un’opera sorprendente, che molti però hanno conosciuto soltanto quarant’anni dopo quando, nel 1988, venne esposta alla Galleria Niccoli di Parma e poi all’estero, aprendo una finestra nuova nello studio dell’opera plastica di Fontana, anche riguardo al “sacro”. Un Fontana nuovo? In un certo senso, sì, se si pensa che la mitologia critica cresciuta attorno all’artista italoargentino si fonda su una spaccatura apparentemente conflittuale fra un Fontana realista e classico, persino lirico e metafisico, che va grossomodo fino alla Sala della Vittoria alla Triennale, che sigilla il suo sodalizio con Edoardo Persico (cui si deve l’“involucro” spaziale per la scultura di Fontana) e quindi al ritorno in Argentina durante la guerra. Partizioni di comodo, naturalmente, se, come rileva Luca Massimo Barbero, nell’ultimo trimestre del 1937 Fontana è a Parigi per l’Esposizione Internazionale, e nei laboratori di Sèvres dove si lavorava il grès, realizza molte opere ceramiche. Secondo una testimonianza scritta di Manuel de Iriondo del gennaio 1938, un nucleo di opere straordinarie, centinaia di pezzi (stando allo stesso Fontana), una scelta dei quali vennero esposti in due gallerie parigine e, come osserva Barbero, non sempre oggi è facile rintracciarli anche perché alcuni finirono distrutti. Barbero, uno dei critici più affidabili sulla scena italiana, prosegue l’opera iniziata da Enrico Crispolti presso la Fondazione Lucio Fontana, licenziando ora il Catalogo ragionato delle sculture ceramiche (Skira, due tomi, pagine 816, euro 350mila) che conta circa duemila pezzi. È un avvenimento, se non altro perché per molto tempo la ceramica di Fontana, soprattutto quella figurativa, era stata un po’ messa da parte, custodita da alcuni collezionisti dotati di raffinato gusto per quello che comprende anche il periodo “barocco” di Fontana. L’esergo del saggio che Barbero licenzia è chiaro e riporta una frase dello stesso Fontana datata 1939: «I critici dicevano ceramica. Io dicevo scultura». Chiaro, ma anche pieno di sottaciute preoccupazioni. All’epoca la ceramica veniva confinata nelle “arti minori”; per Fontana, però, che aveva già all’attivo decine di opere fittili – dalla Testa di ragazza a ingobbio e graffite del 1931, alla Salamandra smaltata e dipinta in giallo e nero del 1933-’34, ai Cavalli marini del 1936, ripetuti esempi di coccodrilli lunghi fino a quattro metri (1936-’37), alla splendida Donna con fiore del 1937 – la materia non era motivo per discriminazioni di rango espressivo, semplicemente richiedeva un approccio meccanico e sperimentale specifico e, in questo caso, inerente la duttilità e la procedura di realizzazione che implicava l’intervento del fuoco. L’alchimista Fontana non si lascia certo intimidire dalle procedure poiché, come dimostrò per l’intera sua esperienza creativa, era uno sperimentatore che intendeva cavare dalle materie tutto il sangue che potevano offrirgli per generare nuova forma. Barbero ricorda la mostra al Pompidou nel 1987-88: momento di svolta, sia sul mercato (all’epoca i valori di Fontana in asta erano ancora bassi se paragonati ai grandi nomi internazionali), sia per la stessa mitologia che si era andata formando sulle facili formule dei “buchi” o dei “tagli”, due elementi linguistici che, come tutte le innovazioni “banali” celano in realtà una sorta di complessità maieutica e richiedono una disciplina interiore, a suo modo un derivato di certe pratiche orientali. Si potrebbe dire che il taglio verticale che Fontana si accinge ad aprire sulla tela (alcune foto di Ugo Mulas lo ritraggono proprio mentre sembra prepararsi con un rito di scarico delle forze che combattono dentro di lui), sia anche una sorta di seppuku allo specchio per entrare nel mistero del cosmo. Ho introdotto questo discorso perché se Persico poteva parlare del primo Fontana cogliendo nelle sue opere un «primitivismo un po’ ingenuo e arbitrario», si deve tuttavia considerare che lo scultore fu un allievo eretico di Wildt, ma anche un osservatore attento di Zadkine e Archipenko, che non si accontentava né di una classicità istrionica ma neppure di raggiungere una scomposizione astratto-lirica della forma chiusa, perché fin dall’inizio in Fontana l’arte si manifestò una “forza della natura” governata da una personalità visionaria e demiurgica. Tullio Albisola, che lo aveva conosciuto nella sua fornace a Genova nel 1934, disse: «anima e smuove tonnellate di creta e non si può dire se l’acciaio potrebbe resistergli». Così se Vulcano è il simbolo della forza del fuoco, Prometeo è colui che lo addomestica per ridare all’uomo la sua autonomia dagli dèi. E la scultura in terracotta per Fontana rappresenta proprio il passaggio tra queste due mitologie. Come scrive Barbero, prima ancora che tema o significato la materia è per Fontana la ragione di un “avvenimento plastico”, che tale rimarrà fino agli anni 50 con la scultura “figurativa” (da intendersi proprio nel senso plastico), ma forse ancor di più nelle formelle dove tagli, buchi e altri segni si giustappongono a creare quadri-scultura che sono già metafore di ambienti. Dorfles scrisse di un «temperamento irruento e fantasioso». Lo scatenarsi delle forze avviene nel crogiolo di forme e di lingue materiche che crescono come tentacoli o coralli marini; le maschere e le figure della commedia dell’arte sono forme di sulfurea vitalità, così accade nelle battaglie; ed ecco, infine, i temi “religiosi” – la cui vitalità poco si differenzia dagli altri temi, se non per alcuni elementi iconici –: possono rappresentare l’occasione – scrive Barbero – per esprimere «la passione umana e il suo cammino travagliato e speranzoso» nella nuova avventura europea postbellica. Il critico, infatti, non crede alla dimensione fideistica di Fontana quando affronta Crocifissioni, Cristi e Madonne, la considera soltanto «una istanza plastica e concettuale ». Credo che in buona parte abbia ragione, e forse questo spiega anche perché l’avventura del concorso per la Quinta porta del Duomo di Milano non si realizzò: alla fine Minguzzi trovò i mezzi per fonderla, sebbene la Banca Popolare di Milano si fosse detta pronta a finanziare Fontana: ma la Fabbrica del Duomo rifiutò e nel 1957 lo scultore fece cadere il progetto (Niccolò D’Agati ha ripercorso la storia di questa mancata realizzazione un anno fa sulla rivista “Arte cristiana”, con nuovi documenti sulle varie fasi del concorso). Forse, a questo punto, aveva ragione anche Ballo quando vedeva in Fontana una religiosità essenzialmente umana, non confessionale, d’altra parte certe reminiscenze cristiane della educazione argentina restano e Fontana rientrando nel paese realizza su commissione alcune opere ai temi mariani. È vero però che nella Via Crucis, in particolare quella policroma del 1947, come scrive Barbero, si afferma una «espansione quasi tentacolare nel rapporto dialettico con lo spazio». Vale a dire, una idea plastica che, aggiunge il critico, ritrova ascendenze berniniane, gestualità tattili come nei bozzetti di Canova, il Martini dei momenti più felici. È anche una scultura “preziosa”, barocca, e il colore che brilla di ori e di cromatismi esaltati dal fuoco ci dà di Fontana l’immagine di un artista sperimentale e al tempo stesso calato nella tradizione dei maestri che possiedono i segreti delle materie che lavorano. Un fabbro che forgia nuova forma con il fuoco spirituale che ha rubato alle forze del cosmo.

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