mercoledì 14 maggio 2025
Dai documenti della Veneranda Fabbrica, l'autrice Gigliola Gorio, ha ricostruito la vicenda di alcune statue rinascimentali non più visibili, un tempo nella cattedrale
Le sculture del finestrone absidale del Duomo

Le sculture del finestrone absidale del Duomo - Veneranda Fabbrica del Duomo di Milano

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Il Duomo di Milano si rivela un’inesauribile miniera di curiosità. Lo conferma il libro scritto da Gigliola Gorio A un passo dal Duomo. Le sculture dell’Arcivescovado nel contesto della cattedrale milanese (Scalpendi editore, 192 pp.), che ricostruisce la storia della sua decorazione scultorea. All’origine del volume, lo studio dell’autrice - ricercatrice di Storia dell’arte medievale all’Università di Pavia - su un nucleo di sculture quattrocentesche del Duomo che il pubblico non ha quasi mai visto: tredici opere che facevano parte in origine di quel vero e proprio “esercito” scolpito nel marmo rosa di Candoglia che da sempre caratterizza la "fisionomia" del Duomo. Come racconta la studiosa, specializzata in scultura lombarda a cavallo tra tardo medioevo e primo Rinascimento, facevano parte di un cospicuo gruppo di statue che vennero calate dai piloni nel lontano 1958 per essere ripulite e poi esposte nella mostra Arte lombarda dai Visconti agli Sforza tenutasi a Palazzo Reale (la prefazione del catalogo fu scritta da Roberto Longhi). Un progetto di ampie dimensioni, ma anche uno sforzo inimmaginabile oggi, visto che la rassegna presentò, oltre a dipinti e miniature, anche una sessantina di statue della cattedrale, di piccole e grandi dimensioni. Una volta terminata, alcune di queste furono collocate nel museo del Duomo che era stato inaugurato pochi anni prima, nel 1953.

Una piccola parte rimase però nei depositi del museo e della Veneranda Fabbrica, finché nel 1961, su iniziativa di monsignor Enrico Villa - architetto e responsabile dell’ufficio “Nuovi templi” della Curia - fu concessa in deposito nel vicino palazzo arcivescovile per essere collocata nelle sale di rappresentanza e della foresteria. Queste opere, prosegue Gorio, «in un certo senso furono dimenticate: non sono state quasi mai prese in considerazione dagli studi successivi, e non sono incluse nel recente catalogo del museo». Solo due tra queste, raffiguranti San Pietro e un Profeta, sono state nuovamente esposte al pubblico dieci anni fa in occasione di un’altra mostra: Arte lombarda dai Visconti agli Sforza. Milano al centro dell’Europa, allestita in occasione di Expo 2015 sempre a Palazzo Reale, come “remake”, ma con opere diverse, di quella di oltre tenutasi 57 anni prima.

Oltre a tracciare un’ampia panoramica sullo stato della scultura quattrocentesca lombarda (il maestro più importante è Jacopino da Tradate, definito da Giovanni Agosti “il Ghiberti dei lombardi”), il volume affronta anche un episodio di storia recente che riguarda Giovanni Battista Montini negli anni in cui fu arcivescovo di Milano, tra il 1954 e il ‘63, prima di diventare papa Paolo VI. Come racconta l’autrice, Montini si affezionò ad una di queste sculture che gli fu donata dall'arcidiocesi di Milano e che venne portata a Roma nei Palazzi Vaticani, dove è tutt’ora conservata: raffigura non a caso San Paolo (è opera di un maestro di inizio XVI secolo), lo stesso santo con cui si fece chiamare, una volta eletto al soglio pontificio. Un’altra scultura molto amata da Paolo VI, che si conserva da allora sempre a Roma (nell’anticamera dell’appartamento pontificio di rappresentanza, nella cosiddetta Sala dei Sediari), raffigura l’arcangelo Raffaele (attribuito ad un altro maestro, autore di un'altra scultura raffigurante San Paolo eremita) ed è alto quasi due metri. Come si legge nel volume, lo stesso papa ringraziò in un’omelia il suo successore come arcivescovo di Milano, Giovanni Colombo, e i rappresentanti della Veneranda Fabbrica, giunti in visita nel 1963; dalle parole pronunciate in quell’occasione, si legge, «traspare tutto l’affetto profondo che lo legava al duomo meneghino, che egli definì “la mia Cattedrale”».

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