mercoledì 6 settembre 2023
In una lettera allo scrittore papa Francesco ricorda il suo viaggio del 2014 sulle orme di Paolo VI e sottolinea: il cristianesimo è esperienza di un fatto storico, di una Persona, non teoria
La chiesa del Santo Sepolcro a Gerusalemme

La chiesa del Santo Sepolcro a Gerusalemme - Epa/Atef Safadi

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Eric-Emmanuel Schmitt sarà in Italia nei prossimi giorni per alcuni eventi legati al suo nuovo libro La sfida di Gerusalemme (e/o – Lev, pagine 160, euro 17,00), da cui anticipiamo parte della lettera all’autore di papa Francesco. La prima presentazione sarà domenica 17 settembre alle ore 19 a Pordenonelegge, conduce Lorenzo Fazzini; lunedì 18 Schmitt dialoga con Roberto Righetto a Bergamo nel contesto di «Molte fedi sotto lo stesso cielo» (ore 20.45, chiesa di San Bartolomeo); martedì 19 presentazione a Roma (Libreria Spazio Sette, ore 18), insieme al cardinale José Tolentino de Mendonça, modera Marina Ricci; giovedì 21 alle ore 18 a Bassano del Grappa nella libreria Palazzo Roberti con Riccardo Poletto e alla sera all’Istituto di Scienze Religiose di Vicenza un dialogo con Leopoldo Sandonà; venerdì 22 a Verona alle ore 18 nella sede del Banco popolare confronto con il vescovo Domenico Pompili, modera Lucia Capuzzi; sabato 23 a Bologna alle ore 10.30 con il cardinale Matteo Maria Zuppi, conduce Annachiara Sacchi; sabato 30 alle ore 11.30 a Torino Spiritualità insieme a Armando Buonaiuto (Cinema Massimo).

Caro Éric-Emmanuel, caro fratello, la lettura del suo libro La sfida di Gerusalemme mi ha riportato alla memoria i giorni del maggio 2014, quando ebbi la grazia di realizzare un pellegrinaggio in Terra Santa nel 50° anniversario dell’incontro tra il mio venerato predecessore san Paolo VI e il patriarca Atenagora. Un avvenimento, quello del 1964, che ha segnato una nuova tappa nel cammino di riavvicinamento tra i cristiani, per secoli divisi e separati, ma che proprio nella terra di Gesù ricevette una nuova direzione. Betlemme, il Santo Sepolcro, il Getsemani… i luoghi che lei ha visitato e descritto con intensità poetica in queste pagine mi sono ritornati prepotentemente alla memoria. Perché la nostra fede è anche una fede “memoriosa”, che fa tesoro delle parole e dei gesti nei quali Dio si manifesta. E, come lei scrive, in Terra santa ci si va per “camminare dove tutto è iniziato”. Nella Galilea di Nazareth e di Cafarnao, i luoghi dove Gesù è cresciuto e ha iniziato il suo servizio di annunciatore del Regno di Dio; nella Giudea di Betlemme e di Gerusalemme, dove era nato e dove la sua parabola terrena si è compiuta; in questi luoghi lei si è fatto pellegrino per toccare con mano l’insondabile mistero del cristianesimo. Quello che lei definisce con parole che mi toccano nel profondo: «L’incarnazione. Dio ha preso carne, ossa, voce, sangue in Gesù». Sì, la Terra Santa ci offre questo grande dono: toccare letteralmente con mano che il cristianesimo non è una teoria né un’ideologia, ma l’esperienza di un fatto storico. Questo avvenimento, questa Persona, si possono ancora oggi incontrare là, tra le colline assolate della Galilea, le distese del deserto della Giudea, i vicoli di Gerusalemme. Non come un’esperienza mistica fine a se stessa ma come la controprova reale che i Vangeli ci hanno trasmesso l’effettivo svolgersi di un fatto storico, nel quale si è andata dispiegando la rivelazione definitiva di Dio all’uomo e alla donna di ogni tempo: Dio si è incarnato in un uomo, Gesù di Nazareth, per annunciarci che il suo Regno è vicino a noi. Lei lo ha ben evidenziato nella riproposizione della via crucis quando a un certo punto afferma: “L’umanità del mio Dio non è un simulacro”. No! Dio si è davvero fatto carne e sangue in Gesù, e come uomo ha vissuto, amato, sofferto per amore nostro, di tutti e di ciascuno, donando la sua vita sulla croce. Questa è davvero la buona notizia che noi tutti aspettiamo: che Dio non è un essere misterioso nascosto tra le nubi bensì qualcuno che ci viene accanto e familiarizza con noi. Altri aspetti del suo commovente racconto mi hanno interpellato. L’accenno, ad esempio, a san Charles de Foucauld che, come ebbe modo di raccontarmi in un nostro incontro, fu l’origine provvidenziale del suo incontro con Dio in un’avventurosa notte nel deserto. Aver visto e aver toccato con mano i luoghi dove fratel Charles ha vissuto a Nazareth, maturando lì quella spiritualità che l’ha reso “fratello universale”, le ha anche aperto l’intimità di una visione teologica che lei riassume così: “Testimoniare. Non convertire”. Questa è la vocazione del cristiano: essere testimone di una salvezza che l’ha raggiunto. E richiamando Charles de Foucauld, mi permetto di chiudere prendendo in prestito il titolo che lei ha scelto di dare al suo diario di viaggio, La sfida di Gerusalemme, che a mio parere è, in realtà, la sfida che tutti abbiamo davanti, quella della fraternità umana. A Gerusalemme, lei lo ha visto e raccontato, si incontrano le grandi tradizioni religiose che si rifanno ad Abramo: ebraismo, cristianesimo e islam. E non è un caso che proprio nel mio viaggio apostolico del 2014 avevo voluto essere accompagnato da due personalità ebree e musulmane, il rabbino Abraham Skorka e il rappresentante musulmano Omar Abboud. Perché volevo manifestare, anche visivamente, che i credenti sono chiamati a essere fratelli e costruttori di ponti, e non più nemici né facitori di guerre. La nostra vocazione è la fratellanza, perché figli dello stesso Dio. La sfida che Gerusalemme pone ancor oggi al mondo è proprio questa: risvegliare nel cuore di ciascun essere umano il desiderio di guardare all’altro come a un fratello nell’unica famiglia umana.

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