martedì 25 gennaio 2022
La storica Olivette Otele ricostruisce la presenza degli africani in Europa: un percorso che si intreccia con quello del colonialismo e che oggi si declina sul concetto del “doppio retaggio”
Manifestazione Black Lives Matter a Berlino, 24 giugno 2017

Manifestazione Black Lives Matter a Berlino, 24 giugno 2017 - Montecruz Foto / CC-by-SA

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È la stessa parola, “afroeuropeo”, a suonare ancora acerba. A differenza dello speculare “afroamericano”, il termine che definisce gli europei di origine africana non si è ancora sedimentato. Perché descrive una realtà nuova? Ecco il primo punto: no, affatto. È vecchia come l’Europa, a ben guardare. Ma non ha mai avuto bisogno di una parola corrente per essere definita. E questo introduce alla sostanziale differenza rispetto all’afroamericano: se negli Stati Uniti il gruppo di origine africana è nettamente individuato, con una sua storia, una sua cultura e una sua dimensione politica, l’omologo europeo non condivide nessuna di queste caratteristiche. Per motivi storici, innanzitutto: gli afroamericani discendono nella quasi totalità dalle vittime della tratta del XVIII secolo, dalla schiavitù del XIX, dal segregazionismo del XX; gli afroeuropei hanno origini assai più disparate.

Oggi il gruppo maggioritario è quello dei figli degli immigrati degli ultimi decenni del Novecento, ma la tempistica diversa a seconda dei vari Paesi (più precoce per Gran Bretagna o Francia, più tarda per Italia o Germania) hanno generato condizioni disuguali; allo stesso modo, gioca a sfavore della costituzione di un’identità condivisa la differenza, soprattutto linguistica, dei contesti di nascita. A differenza degli Stati Uniti, l’origine dei “nuovi europei” è assai differenziata: i migranti provengono da ogni regione dell’Africa, che al suo interno ha differenze anche più profonde (per esempio, tra Africa mediterranea e Africa subsahariana) di quelle che ha con la stessa Europa. Difficile raccogliere tutto sotto lo stesso cappello. E poi, la storia: il gruppo dei discendenti dei migranti economici e culturali novecenteschi è quello numericamente più consistente, ma non è l’unico, e soprattutto non lo è stato nel corso dei secoli. Fin dall’antichità gli scambi e gli spostamenti hanno attraversato in ogni direzione il Mediterraneo, con la sponda meridionale parte pienamente attiva del processo, e a sua volta ponte verso l’interno più remoto del continente. Ecco allora che figure di afroeuropei punteggiano, emergendo qua e là, l’intera storia del Vecchio continente.

A cercare di farne un ritratto – non un catalogo, che sarebbe impossibile, ma per casi esemplari – è la storica afroeuropea Olivette Otele, che in Africani europei. Una storia mai raccontata (traduzione di Francesca Pe’; Einaudi, pagine 216, euro 27,00) propone proprio «una sintesi inedita e completa». Un obiettivo molto ambizioso, forse perfino troppo. Sembra piuttosto un percorso ancora in itinere, e di un percorso in itinere manifesta anche qualche limite: l’approccio sistematico (cronologico e geografico) sembra più volte tentato, ma poi finisce per procedere per exempla, confondendo i piani temporali. Così, sembra che ci sia un’iniziale difficoltà a mettere a fuoco l’oggetto esatto dello studio: stona infatti il capitolo iniziale dedicato all’antichità, dove gli stessi concetti di “africano” ed “europeo” ancora non esistevano.

Definire “afroeuropee” figure come Settimio Severo risulta anacronistico, e il saggio lascia più di una perplessità quando nota, per esempio, che «i Romani che erano africani di nascita non enfatizzavano lo loro origini»... Non serve un antichista per ricordare che, dal punto di vista di un Romano, Africa, Gallia o Hispania erano soltanto nomi di province, e che l’unica cosa che contava ai loro occhi era l’essere o meno cittadino romano e non certo il luogo dove, magari casualmente, si era venuti al mondo. Allo stesso modo, la Otele indulge forse più del dovuto sul nomignolo “il Moro” affibbiato al duca di Firenze Alessandro de’ Medici, ormai generalmente riconosciuto come dovuto al semplice colorito olivastro (come il suo contemporaneo Ludovico Sforza) e non già all’essere figlio di una serva mulatta (come voleva una tradizione popolare da tempo accantonata). Poi però, una volta superate queste esitazioni, diciamo così, iniziali, lo studio della Otele comincia a prendere tutt’altro passo.

Diego Velázquez, “Juan de Pareja”, 1650

Diego Velázquez, “Juan de Pareja”, 1650 - -

Capitolo dopo capitolo, presenta esempi storicamente ben documentati di persone che, in vario modo, sono tutte rappresentative di un diverso modo di essere afroeuropei, nel tempo e nello spazio. Ecco allora sfilare Juan Latino, ex schiavo che riuscì ad emergere dalla Granada del XVI secolo grazie alla perfetta padronanza dei classici; ecco Jacobus Capitein, comprato in Africa da un olandese nel 1728 e divenuto teologo di spicco; ecco Joseph de Boulogne, meticcio di Guadalupa divenuto celebre a cavallo della Rivoluzione Francese come “il cavaliere di Saint-Georges”, violinista e compositore di successo. Sono tutte figure tutt’altro che ordinarie: perché, spiega la Otele, «gli africani che avevano abbastanza valore da essere ricordati sono quelli che erano giudicati eccezionali […]. Hanno sfidato l’oscurità per essere inclusi nelle cronache europee»; anzi, il concetto stesso di eccezionalismo «è uno strumento interessante per capire la storia».

Di esempio in esempio, Olivette Otele arriva fino ai giorni nostri (compresi), e parallelamente il suo ragionamento guadagna in sicurezza. La sua storia degli afroeuropei si intreccia inevitabilmente con quella del colonialismo europeo e soprattutto delle relazioni con le élite locali. Tema, questo, che sta conoscendo una nuova stagione di approfondimenti storiografici; per esempio, sempre Einaudi ha appena dato alle stampe l’interessante Terra di lacrime. L’esplorazione e il saccheggio dell’Africa equatoriale di Robert Harris (traduzione di Chiara Stangalino; pagine 510, euro 34,00). Assai stimolante, e potenzialmente ricca di ulteriori sviluppi, l’insistenza con la quale la Otele ritorna sul concetto di “doppio retaggio”:

«Gli afroeuropei si trovano al crocevia di diverse identità». Non è la mera assunzione teorica secondo la quale la diversità arricchisce: esistono già elaborazioni, figlie di questi “doppi retaggi”, capaci di innestarsi proficuamente nel dibattito culturale europeo. Si può prendere come esempio l’idea di “casa”, negli ultimi anni divenuta un tema centrale nella riflessione contemporanea sulla nostra visione del mondo: e proprio «il concetto di casa – spiega la Otele – è cruciale per capire gli afroeuropei. Il pensiero afroeuropeo onora l’idea di casa, ma afferma anche l’importanza di cercare una casa che accolga le differenze di ognuno »; nell’analizzare in particolare la condizione di somali fuggiti in Svezia, la studiosa rimarca che «c’è stata una reinvenzione dell’idea di casa, con sogni e ricordi tramandati alla generazione successiva […]. La casa si è trasformata in un luogo immaginario dove poter alleviare il dolore». Non è difficile rintracciare qui parallelismi con i temi affrontati dalla riflessione antropologica e filosofica più aggiornata, soprattutto quella rilanciata dalle limitazioni agli spostamenti dovuti alla pandemia. «La storia degli afroeuropei è tanto vitale e complessa quanto brutale», conclude la Otele. Imparare a conoscerla, e a comprenderla come parte integrante della storia europea tout court, può essere – oltre che uno strumento necessario per stare al passo con l’evolversi della nostra società – anche uno strumento di arricchimento culturale a tutto tondo.

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