martedì 29 settembre 2009
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Curtis McCarthy, 44 anni, in­nocente, è stato condannato a morte per l’uccisione di u­na ragazza, Pamela Willis, figlia di un poliziotto, coinvolta in una storia di tossicodipendenza. È stato liberato alla fine di maggio del 2007, dopo ventun anni trascorsi nel braccio del­la morte di McAlester, in Oklahoma. Il duecentounesimo ad essere libe­rato grazie alla prova del Dna, il quin­dicesimo condannato a morte. Mi puoi dire cosa e da quali amici hai imparato di più nel braccio del­la morte? «Credo di aver imparato da tutti, per­sino dal personale del carcere. Per prima cosa, ho imparato l’umiltà, che il mondo non gira intorno a me. Che tutti facciamo parte di una co­munità più grande e che il mio ego­centrismo, l’attenzione ossessiva sulla mia vita, non andava bene. Non potevo vivere la mia vita in quel mo­do. Ho imparato questo da tutti, comprese le guardie. Ho imparato a non odiare il personale del carcere. Anche se eravamo maltrattati da al­cune guardie, ho imparato a non o­diarle. Li capisco come esseri uma­ni, che possono sbagliare, che sono vittime di un modo di pensare sba­gliato e di un sistema sbagliato, che hanno anche loro i problemi: tutto questo fa fare loro cose che non do­vrebbero fare. Esattamente come me. Faccio ancora delle cose che non dovrei fare: sono distratto, non sono puntuale, dimentico i nomi e sono maleducato. Non vorrei esserlo. Ma succede perché sono un essere u­mano, fallibile. Credo che questa sia la cosa più importante che ho im­parato: riconoscere l’umanità nei miei vicini e nel personale che lavo­rava lì. Anche negli uomini e nelle donne che mi hanno fatto dei torti. Non li odio più. Sono esseri umani e alcuni di loro si trovavano in situa­zioni difficili. E hanno fatto delle co­se che non avrebbero dovuto fare. Certo, questo ha avuto un esito ter­ribile in me, ma attraverso i miei con­tatti con tutta questa gente e i miei pensieri penso che quando parlo di ira, di rabbia e di vendetta ho capito che questi atteggiamenti non servo­no niente. Era più importante puni­re questa gente o educare gli altri, in modo da cambiare il sistema ed evi­tare che altri soffrano? Qual era il mo­do migliore per vivere la mia vita? Es­sere egoista o altruista?». L’odio e la vendetta non sono mai una soluzione. Secondo me. «È vero. Ho imparato anche questo, che odio e vendetta ci consumano. Non riusciamo a pensare con chia­rezza, così costruiamo la nostra pri­gione. Lo facciamo contro noi stes­si. Consentiamo loro di fornire i mat­toni e le attrezzature per costruire u­na prigione intorno a noi stessi in- vece di avere il cervello e il cuore a­perti, e la saggezza. Lo vedo in Ame­rica, quando la gente parla della pe­na di morte e quando parlano con le vittime di questi delitti terribili, con le loro famiglie. Vedo il loro odio, e non c’è modo di dire: 'Capisco il suo dolore, ma deve superare l’odio. De­ve decidere ciò che è meglio per la sua famiglia, meglio per la società e meglio per i prigionieri'. Invece il nostro governo dice: 'Odiare! Ucci­dere! Vi farà stare meglio'. Ma non funziona così. Si vede come questo distrugge gli uomini e le donne. Ho visto come tutto questo ha quasi di­strutto me». Rinunceresti a quello che hai im­parato nel braccio della morte pur di non esserci mai stato? «No. È stata una cosa spaventosa, do­ver vivere in quella maniera giorno dopo giorno, e ancora il giorno do­po... per anni e anni. Il tradimento, l’isolamento, la violenza, la disuma­nità e tutta quella morte. Ma credo che mi ha dato saggezza. Per come ho vissuto la mia vita, avrei potuto morire di overdose. Sarei comunque andato in prigione per qual­che cosa che avrei fatto. Non voglio minimizzare quello che hanno fatto le autorità – perché hanno commesso un crimine contro l’umanità – lo hanno fatto a me e ad al­tri. Non minimizzo e non ri­tengo accettabili quelle a­zioni, ma devo comunque accettare la responsabilità per le mie azioni. Ho fatto tutto nella mia vita tranne che commettere apertamente un crimine capitale. Ci tengo alle lezio­ni imparate: non ho appreso da lo­ro – hanno tentato di uccidermi, di schiacciarmi, di utilizzarmi a fini po­litici – quindi non ho imparato un bel niente da loro. L’ho imparato per me. L’ho imparato dai miei vicini, dalla mia famiglia e dalle persone che mi hanno mostrato amore e comprensione – gli uomini e le don­ne dell’ Innocence Project e della Co­munità di Sant’Egidio –. Non darei nulla in cambio di quelle lezioni e di quella saggezza». Che rapporto c’è tra la tortura e la pena capitale? «Considero come tortura il modo in cui viene affrontata la pena di mor­te in America. È una questione tal­mente politica che tutti raccontano bugie. È tortura doverti presentare davanti al governo: e noi abbiamo una profonda fiducia nello Stato e nelle istituzioni, nella giustizia in particolare, come ci insegnano da bambini. In questo senso, in Ameri­ca, noi restiamo bambini. Il primo i­stinto è quello di affrontare il gover­no con fiducia, sapendo che tutti a­vranno un processo equo. Poi si en­tra in aula e si sentono dire bugie e si sente odio. Questo è tortura. Per­ché tutte le tue convinzioni e il tuo orgoglio ti sono strappati di dosso. È tortura doverti presentare in pub­blico con le catene, perdere la dignità di uomo. Essere rinchiuso in una scatola piccola tra uomini che sono pazzi, violenti e malati, che non ri­cevono alcuna cura. Dover tenere sempre gli occhi aperti per garanti­re la tua incolumità, giorno dopo giorno, perché in cella con te c’è un pazzo e un violento. È come essere in combattimento, in guerra, giorno dopo giorno, tutti i giorni. È la stes­sa cosa. È tortura tenere la mano di una persona amata e vedere arriva­re il governo, lo Stato, che la porta via senza alcuna ragione, la porta nella stanza accanto e la lega a un tavolo e ucciderla: questo è tortura». C’è una storia di un uomo nel brac­cio della morte dell’Oklahoma, che doveva guarire prima di essere uc­ciso, altrimenti non lo potevano uc­cidere... È una storia molto strana. Me la puoi raccontare? «Credo che tu ti riferisca a Robert Brecheen. Quella è stata la vicenda più assurda e spaventosa che ho mai sentito o visto nel braccio della mor­te. Il comportamento ossessivo del governo è stato davvero crudele e vendicativo. Robert Brecheen era un detenuto nel braccio della morte del­l’Oklahoma. Era lì per morire. Quel­lo che hanno fatto le autorità è tal­mente terrificante, mostra la pazzia del governo, la sua ossessione per la morte, per uccidere. Robert aveva deciso che non avrebbe dato al go­verno la soddisfazione di ucciderlo. Ha conservato tutti i farmaci che gli prescrivevano, molti, in una quantità sufficiente ad uccidere. Quattro o cinque ore prima di essere messo a morte per mano del governo, lui ha inghiottito tutti i farmaci. Una quan­tità sufficiente per morire. Quando le guardie hanno capito che cosa a­veva fatto Robert, lo hanno portato di corsa in ospedale e i medici gli hanno salvato la vita con altri far­maci e una lavanda gastrica. Hanno salvato la sua vita. Robert stava mo­rendo per un’overdose e lo hanno strappato alla morte. Poi lo hanno riportato in prigione, e poi, final­mente, lo hanno ucciso: lo hanno le­gato al tavolo, gli hanno iniettato il veleno e lo hanno ucciso. È stata la cosa più spaventosa e orrenda che ho visto nel braccio della morte. C’è una pazzia, è un’ossessione quella di uccidere. È sete di sangue, anche se il sangue non si vede con l’inie­zione letale. Eppure lui aveva fatto esattamente quello che loro voleva­no fare: ha preso dei farmaci per mo­rire. Ma loro hanno detto: 'Eh no, non è esattamente così che vogliamo che muoia, vogliamo ucciderti con le nostre mani. Ti odiamo a tal punto da aver creato questo rito della mor­te, e ci piace così tanto che non per­metteremo che tu ci batti e lo fai qualche ora prima, da solo. Vogliamo guardarti negli occhi e toglierti la vi­ta, mentre ti uccidiamo, e ucciderti noi'. È una vicenda assurda, insen­sata, indecente». Il lettino delle esecuzioni del carcere di Raleigh, nella Carolina settentrionale. Sotto, Curtis McCarthy a Roma
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